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Risarcimento da epatite, SC: “Il paziente deve dimostrare di non esser stato contagiato prima dell’intervento”

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Con la sentenza n. 21939 dello scorso 2 settembre, la Cassazione ha rigettato la domanda risarcitoria avanzata da una donna per l'asserita epatite contratta a seguito di un intervento chirurgico, per non aver adeguatamente dimostrato che l'infezione fosse avvenuta proprio a causa di quell'intervento e non, piuttosto, mesi prima in occasione delle cure odontoiatriche.

Si è, pertanto, statuito che "nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere dell'attore, paziente danneggiato, provare l'esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento, onere che va assolto dimostrando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del "più probabile che non", la causa del danno, con la conseguenza che, se, al termine dell'istruttoria, non risulti provato il suddetto nesso tra condotta ed evento, la domanda dev'essere rigettata".

Il caso sottoposto all'attenzione della Cassazione prende avvio da una richiesta di risarcimento danni avanzata da una donna avverso la struttura ospedaliera ove si era sottoposta ad un intervento di artoprotesi al ginocchio destro; la donna deduceva di aver contratto, in occasione del ricovero ospedaliero presso la predetta struttura sanitaria, la trasmissione dell'epatite C e di aver appreso della malattia un anno dopo delle dimissioni, allorquando – al fine di sottoporsi cure e prestazioni otorinolaringoiatriche – effettuava una serie di esami che evidenziavano markers di epatite virale in misura piuttosto elevata.

La convenuta resisteva alla domanda evidenziando come, in occasione dell'intervento, all'attrice non era stata effettuata alcuna trasfusione, sicché i sanitari non avevano alcun obbligo di effettuare l'analisi dei marcatori virali, non rientrando gli stessi in alcun protocollo prescritto da norme o direttive internazionali; in virtù di tanto, non poteva escludersi che la paziente fosse già affetta dalla malattia al momento del ricovero.

Il Tribunale di Milano rigettava la domanda, escludendo la responsabilità della struttura convenuta, per non aver l'attrice fornito la prova del nesso causale fra l'infezione e l'operato dell'ospedale.

Difatti, non essendovi stata alcuna trasfusione, l'attrice avrebbe dovuto provare l'assenza di infezione all'atto dell'intervento; di contro, all'esito dell'istruttoria era emerso – sia pure in termini puramente statistici – che il grado di probabilità che l'infezione fosse stata contratta in occasione dell'intervento di artoprotesi fosse sicuramente inferiore al 50%, ovvero più probabile no, in quanto la paziente si era già sottoposta ad altri interventi chirurgici e cure odontoiatriche, ragion per cui vi erano state diverse altre e precedenti occasioni di possibile contagio.

La Corte di appello di Milano confermava la decisione del giudice di prime cure.

Ricorrendo in Cassazione, la paziente censurava la decisione impugnata per non aver addossato alla struttura sanitaria l'onere di provare la preesistenza della patologia all'intervento.

Diversamente, secondo la ricorrente, spettava alla struttura sanitaria dimostrare che la malattia persisteva al momento del ricovero, rimanendo a suo carico il sol onere di provare l'intervento chirurgico (e quindi il contratto) e la successiva insorgenza della malattia senza dover dimostrare altro.

La Cassazione non condivide l'assunto della paziente. 

I Supremi Giudici ricordano che in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l'onere di provare il nesso di causalità tra l'evento di danno (insorgenza di una nuova patologia) e l'azione o l'omissione dei sanitari, non potendosi predicare, rispetto a tale elemento della fattispecie, il principio della maggiore vicinanza della prova al debitore, in virtù del quale, invece, incombe su quest'ultimo l'onere della prova contraria solo relativamente alla colpa ex art. 1218 c.c.

L'art. 1218, quindi, solleva il creditore dal provare la sola colpa (in virtù del criterio della maggiore vicinanza della prova), ma non lo esonera anche dalla prova sul nesso di causa tra la condotta del debitore e il danno di cui domanda il risarcimento: ne deriva che, in relazione al nesso causale fra la condotta dell'obbligato e il danno lamentato dal creditore, non ha ragion d'essere l'inversione dell'onere prevista dall'art. 1218 c.c. e non può che valere, quindi, il principio generale espresso nell'art. 2697, c.c., che onera l'attore (sia il danneggiato in sede extracontrattuale che il creditore in sede contrattuale) della prova degli elementi costitutivi della propria pretesa.

Con specifico riferimento al caso di specie, la Corte evidenzia l'impossibilità per l'attrice di invocare i principi di vicinanza alla prova o di riferibilità per ribaltare sull'avversario l'onere probatorio, in quanto le circostanze oggetto di prova, per le stesse caratteristiche della situazione presa in esame, rientravano nella piena conoscibilità ed accessibilità di entrambe le parti, tali da consentire senza particolari difficoltà alla parte di provare i propri requisiti soggettivi.

Ne deriva, quindi, il rigetto del ricorso, in quanto l'onere dell'attore, paziente danneggiato, di provare l'esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento, va assolto dimostrando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del "più probabile che non", la causa del danno, con la conseguenza che, se, al termine dell'istruttoria, non risulti provato il suddetto nesso tra condotta ed evento, la domanda dev'essere rigettata.

Compiute queste precisazioni, la Cassazione rigetta il ricorso. 

 

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