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Danni psichici, SC: “Vanno risarciti anche se il danneggiato versava in un pregresso stato di ansia”

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Con l'ordinanza n. 20836/2018, la III sezione civile della Corte di Cassazione, chiamata ad accertare il danno psichico sofferto congiunti di una donna deceduta per errata diagnosi medica, ha quantificato il danno dovuto per siffatto pregiudizio senza operare alcuna diminuzione per i pregressi processi patologici, di cui i familiari già da tempo pativano e che traevano origine da fattori diversi dalla reazione alla malattia della defunta.

Si è difatti statuito che " in tema di responsabilità civile, laddove il danneggiato, prima dell'evento, versi in pregresso stato di vulnerabilità (o di mera predisposizione) ma l'evidenza probatoria del processo, sotto il profilo eziologico, non consente di dimostrare con certezza che, a prescindere dal comportamento imputabile al danneggiante, detto stato si sarebbe comunque evoluto, anche in assenza dell'evento di danno, in senso patologico invalidante, il giudice in sede di quantificazione del danno non deve procedere al alcuna diminuzione del quantum  debeatur, posto che, diversamente, darebbe applicazione all'intollerabile principio secondo cui persone che, per loro disgrazia ( e non già per colpa imputabile ex art. 1227 c.c. o per fatto addebitabile a terzi), siano più vulnerabili di altre, dovrebbero irragionevolmente appagarsi di una tutela risarcitoria minore rispetto agli altri consociati affetti da cosiddetta normalità". 

Nel caso sottoposto alla sua attenzione, gli eredi di una donna – deceduta per le inadeguate e negligenti prestazioni fornite dai sanitari che, valutando erroneamente degli esami ecografici, diagnosticavano in ritardo una patologia neoplastica mammaria giudicata inoperabile al momento della scoperta – convenivano in giudizio la struttura sanitaria chiedendo, previo accertamento della sua responsabilità, la condanna a tutti i danni patiti, sia iure propri che iure hereditatis. 

 In particolare, gli stessi deducevano che l'evoluzione della malattia nella loro congiunta aveva comportato gravi pregiudizi per la medesima e anche l'insorgenza di patologie psichiche per i suoi familiari: il marito, in conseguenza della malattia della moglie aveva sofferto di una gravissima depressione maggiore in comorbilità con grave disturbo post-traumatico da stress caratterizzato da marcati sintomi ansiosi-agitativi, impulsivi e confusionali; il figlio maggiore, in conseguenza della patologia della madre e degli eventi correlati, sviluppava un grave disturbo di personalità di tipo borderline; il secondogenito mostrava un'accentuata tendenza al distacco autistico e sviluppava un disturbo post-traumatico da stress grave in comorbilità con attacchi di panico recidivanti.

Pertanto gli attori, anche per tali eventi pregiudizievoli patiti iure proprio, chiedevano il risarcimento dei danni subiti.

L' A.U.S.L., costituendosi in giudizio, contestava la sussistenza del nesso causale tra l'errata diagnosi e le conseguenze dannose lamentate dagli attori, soprattutto quelle relative ai danni psichici patiti dai congiunti.

Sia in primo che in secondo grado i giudici di merito accoglievano le domande degli attori, liquidando in loro favore anche tutti i danni richiesti per il pregiudizio psichico subito a seguito della malattia e del decesso della loro congiunta.

La struttura sanitaria, ricorrendo in Cassazione, deduceva violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223, 2055 e 2967 c.c.: secondo la ricorrente, infatti, erroneamente la Corte territoriale avrebbe ritenuto provato il nesso causale tra l'inadempimento dei sanitari e le patologie psichiche sofferte dai congiunti; in secondo luogo, altrettanto erroneamente si sarebbe proceduto alla quantificazione del danno psichico dei familiari senza considerare i presunti processi patologici psichici pregressi e originati da fattori diversi dalla reazione alla malattia della defunta.

 Gli Ermellini non condividono le censure formulate.

In punto di fatto la Cassazione ritiene incensurabile la motivazione dei giudici di merito che correttamente hanno ritenuto provato, secondo il criterio del più probabile che non, il nesso causale tra la condotta dei sanitari e le conseguenze pregiudizievoli derivate sia alla paziente poi deceduta (riconosciute agli eredi iure successionis) che ai suoi congiunti (pregiudizio subito dagli stessi iure proprio).

In relazione alla quantificazione del pregiudizio subito iure proprio dagli eredi, la sentenza in commento conferma la decisione della Corte di merito, i cui giudici correttamente hanno quantificato il pregiudizio prescindendo dalla peculiare condizione dei danneggiati, che già erano predisposti al disturbo psichico.

Sul punto, gli Ermellini specificano che in tema di responsabilità civile, laddove il danneggiato, prima dell'evento, versi in pregresso stato di vulnerabilità (o di mera predisposizione) ma l'evidenza probatoria del processo, sotto il profilo eziologico, non consente di dimostrare con certezza che, a prescindere dal comportamento imputabile al danneggiante, detto stato si sarebbe comunque evoluto, anche in assenza dell'evento di danno, in senso patologico-invalidante, il giudice in sede di quantificazione del danno non deve procedere ad alcuna diminuzione del "quantum debeatur". 

Diversamente opinando, infatti, si darebbe applicazione all'intollerabile principio secondo cui persone che, per loro disgrazia (e non già per colpa imputabile ex art. 1227 c.c. o per fatto addebitabile a terzi), siano più vulnerabili di altre, dovrebbero irragionevolmente appagarsi di una tutela risarcitoria minore rispetto agli altri consociati affetti da cosiddetta "normalità.

In conclusione la Cassazione rigetta il ricorso con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

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