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Stalking, Cassazione: no alla condanna se la condotta persecutoria è stata già valutata come circostanza aggravante dell’omicidio

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Con la sentenza n. 30931 dello scorso 6 novembre, la III sezione penale della Corte di Cassazione, ha escluso che potesse essere condannato per stalking un uomo che, per le medesime condotte persecutorie, aveva ricevuto già una pena severa, essendo le stesse condotte state qualificate quali circostanza aggravante di un tentato omicidio, ai sensi dell'art. 576 c.p., comma 1, n. 5.1.

Si è difatti precisato che "tra gli art. 576 c.p., comma 1, n. 5.1, e art. 612-bis c.p. sussiste un concorso apparente di norme ai sensi dell'art. 84 c.p., comma 1, e, pertanto, il delitto di atti persecutori non trova autonoma applicazione nei casi in cui l'omicidio della vittima avvenga al culmine di una serie di condotte persecutorie precedentemente poste in essere dall'agente nei confronti della medesima persona offesa".

Il caso sottoposto all'attenzione della Cassazione prende avvio dalla condanna inflitta ad un uomo per il delitto di atti persecutori ex art. 612-bis c.p., commi 1 e 2, per aver posto in essere nei confronti della propria ex compagna ripetuti comportamenti assillanti e violenti, consistiti in frequenti appostamenti all'esterno dell'uscio di casa e nei luoghi frequentati dalla donna, nel pretendere di accompagnare la donna in tutti i suoi spostamenti e di ottenerne giustificazione, nel porre in essere ripetute ed ingiustificate scenate di gelosia, nel telefonarle continuamente ed inviarle una moltitudine di sms in cui le ripeteva in modo ossessivo che non doveva lasciarlo, pena minaccia di morte; tutto ciò aveva ingenerato nella donna uno stato di paura e disagio emotivo, ingenerando in lei il timore per l'incolumità propria e dei propri congiunti, così incidendo sul relativo modus vivendi e sul complessivo stato psichico. 

Al momento della condanna per atti persecutori, l'imputato era stato già condannato per il delitto di tentativo di omicidio in danno della stessa donna, aggravato ai sensi dell'art. 576 c.p., comma 1, n. 5.1, per essere l'autore del delitto di cui all'art. 612-bis c.p. nei confronti della vittima.
In particolare, si era ritenuta integrata l'aggravante di cui all'art. 576 c.p., comma 1, n. 5.1 perché era inequivocabilmente emerso come le minacce di morte erano state pronunciate per la gelosia e la possessività abnormi, con la tendenza a controllare ogni minimo spostamento della ex compagna.
Ricorrendo in Cassazione, la difesa dell'imputato deduceva la violazione del principio del ne bis in idem quanto al delitto di cui all'art. 612-bis c.p., assumendo di essere stato già condannato, per i medesimi fatti a lui ascritti, con sentenza irrevocabile in relazione al reato di cui all'art. 576 c.p., comma 1, n. 5.1.

La Cassazione condivide le difese mosse dal ricorrente, ritenendo che il delitto d'omicidio aggravato ex art. 576 c.p., comma 1, n. 5.1, in relazione al quale il ricorrente è stato definitivamente condannato, assorba il delitto di atti persecutori contestato al medesimo imputato.

Secondo la Corte, infatti, nonostante l'ambigua formulazione dell'art. 576 c.p., comma 1, n. 5.1 – il quale dà rilevanza al fatto che l'omicidio sia stato commesso "dall'autore del delitto previsto dall'art. 612-bis nei confronti della persona offesa", quasi a voler incentrare la punizione sul tipo di autore – non va messo in dubbio il dato per cui ciò che aggrava il delitto di omicidio non è il fatto che esso sia commesso dallo stalker in quanto tale, ma che esso sia stato preceduto da condotte persecutorie che siano tragicamente culminate con la soppressione della vita della persona offesa. 

 La volontà del legislatore è stata, appunto, quella di reprimere un allarmante fenomeno sociale che vedeva in costante aumento il numero di omicidi consumati ai danni delle vittime di atti persecutori; tale obiettivo è stato perseguito con l'introduzione di una specifica aggravante che comporta la pena dell'ergastolo.

Ne deriva che il delitto di atti persecutori non trova autonoma applicazione nei casi in cui l'omicidio della vittima avvenga al culmine di una serie di condotte persecutorie precedentemente poste in essere dall'agente nei confronti della medesima persona offesa: una diversa conclusione non sarebbe rispettosa del principio del ne bis in idem sostanziale, posto a fondamento della disciplina del reato complesso, il quale vieta che uno stesso fatto venga addossato giuridicamente due volte alla stessa persona, nei casi in cui l'applicazione di una sola norma incriminatrice assorba il disvalore del suo intero comportamento.

Seguendo tale ultima tesi, difatti, gli atti persecutori verrebbero addebitati all'agente due volte: come reato autonomo, ai sensi dell'art. 612-bis c.p., e come specifica circostanza aggravante dell'omicidio, ai sensi dell'art. 576 c.p., comma 1, n. 5.1, sebbene il disvalore della condotta sia già integralmente ed adeguatamente considerato da quest'ultima norma, che commina la pena dell'ergastolo.
Con specifico riferimento al caso di specie, la Cassazione evidenzia come vi sia perfetta coincidenza fattuale e spazio-temporale tra i fatti ex art. 612-bis c.p. commessi in danno della medesima persona offesa, contestati nella sentenza oggetto di impugnazione, con quelli già qualificati come circostanza aggravante del tentativo di omicidio ex art. 576 c.p., comma 1, n. 5.1 e per i quali era intervenuta già una condanna definitiva.

In conclusione, la Cassazione annulla senza rinvio la sentenza impugnata in riferimento al delitto di cui all'art. 612-bis c.p. con eliminazione della relativa pena, pari a quattro mesi di reclusione.

 

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