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Stalking alla collega, divieto di avvicinamento: provvedimento legittimo anche se impedisce di andare a lavorare

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Con la sentenza n. 27271 dello scorso 1 ottobre, la V sezione penale della Corte di Cassazione, ha confermato la misura del divieto di avvicinamento ai luoghi normalmente frequentati dalla parte lesa disposta a carico di un insegnante accusato di stalking ai danni della Preside dell'istituto scolastico ove lavorava, rigettando l'istanza dell'uomo che lamentava la lesione dell'esercizio del diritto al lavoro costituzionalmente tutelato, per aver il giudice ricompreso nel divieto di avvicinamento anche il suo luogo di lavoro.

Si è difatti precisato che "è legittimo il provvedimento che, ex art. 282-ter c.p.p., obblighi il destinatario della misura a mantenere una certa distanza dalla persona offesa, ovunque questa si trovi, senza specificare i luoghi oggetto del divieto, essendo tale provvedimento cautelare rivolto a tutelare il diritto della persona offesa ad esplicare la propria personalità e la propria vita di relazione in condizioni di assoluta sicurezza, a prescindere, quindi, dal luogo in cui questa venga a trovarsi".

Il caso sottoposto all'attenzione della Cassazione prende avvio dall'esercizio dell'azione penale nei confronti di un insegnante, accusato di stalking per aver messo in atto ripetute condotte persecutorie verso la dirigente scolastica dell'Istituto ove lavorava; le minacce che l'uomo avanzava verso la Preside continuavano senza sosta nonostante la pendenza delle indagini penali, così come confermato dal marito della persona offesa e dai professori dell'istituto scolastico di cui la vittima era Preside. 

 In virtù di tanto, il Tribunale di Roma, in funzione di riesame, applicava la misura del divieto di avvicinamento ai luoghi normalmente frequentati dalla parte lesa nonché del divieto di avvicinamento e comunicazione con la persona offesa.

Ricorrendo in Cassazione, la difesa dell'indagato chiedeva l'annullamento dell'ordinanza impugnata, denunciando l'inosservanza dell'art. 282-ter comma 4 c.p.p.: eccepiva, infatti, come il giudice avesse ricompreso nel divieto di avvicinamento anche il luogo di lavoro dell'indagato, senza prevedere, nel provvedimento impugnato, modalità che consentissero l'espletamento dell'esercizio del diritto al lavoro costituzionalmente tutelato.

La Cassazione non condivide le difese mosse dal ricorrente.

Ai sensi dell'art. 282-ter c.p.p., con il provvedimento che dispone il divieto di avvicinamento il giudice prescrive all'imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa, anche disponendo l'applicazione delle particolari modalità di controllo previste dall'art. 275 bis.

 In relazione alla misura cautelare, gli Ermellini evidenziano che è legittimo il provvedimento che, ex art. 282-ter c.p.p., obblighi il destinatario della misura a mantenere una certa distanza dalla persona offesa, ovunque questa si trovi, senza specificare i luoghi oggetto del divieto, essendo tale provvedimento cautelare rivolto a tutelare il diritto della persona offesa ad esplicare la propria personalità e la propria vita di relazione in condizioni di assoluta sicurezza, a prescindere, quindi, dal luogo in cui questa venga a trovarsi.

Con specifico riferimento al caso di specie, ove la condotta censurata si connota per una persistente ricerca di avvicinamento alla vittima, correttamente il giudice cautelare ha applicato la misura del divieto di avvicinamento, obbligando il destinatario a mantenere una certa distanza dalla vittima, ovunque questa si trovi.

Da ultimo la Corte rileva che la concorrente necessità di frequentazione del luogo di lavoro da parte dell'indagato rappresenta una esigenza che il ricorrente dovrebbe rappresentare al giudice del merito cautelare, onde ottenere la specificazione di modalità di svolgimento che possano assicurare l'esercizio del diritto al lavoro, ove compatibile con la misura cautelare e, soprattutto, con le esigenze cautelari cui la stessa è preposta.

In conclusione, la Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

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