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Con l'ordinanza n. 26302, la I sezione civile della Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul ricorso presentato da una donna i cui figli erano stati affidati ad altra famiglia, ha confermato l'affidamento preadottivo disposto dai Giudici di merito che avevano formulato un giudizio radicalmente negativo sulla volontà della madre di recupero del rapporto genitoriale. Si è quindi precisato che è irrilevante la disponibilità, meramente dichiarata, a prendersi cura dei figli minori, se la stessa non si concretizza in atti o comportamenti giudizialmente controllabili, tali da escludere la possibilità di un successivo abbandono.
Il caso sottoposto all'attenzione della Cassazione prende avvio dalla sentenza emessa dal Tribunale per i minorenni di Brescia con la quale, previo accertamento dello stato di abbandono, si disponeva lo stato di adottabilità di due fratelli, figli della stessa madre (che aveva lasciato l'Italia dove viveva con i due minori, senza comunicare nulla alla sua famiglia) ma di due padri diversi (entrambi inadempienti ai propri obblighi di assistenza e in carcere per aver commesso fatti penalmente rilevanti).
La Corte d'appello di Brescia, adita su appello proposto dalla madre, confermava la sentenza di primo grado rilevando come la donna – dopo essere stata sottoposta ad un programma di sostegno al recupero della capacità genitoriale – non aveva dimostrato tale recupero, tenendo un atteggiamento poco collaborativo ed aggressivo; nel frattempo i minori erano stati inseriti in una famiglia affidataria, con netto miglioramento delle loro condizioni fisiche e psichiche, e non avevano più avuto rapporti con la madre.
In considerazione di tanto, la Corte concludeva sostenendo che risulta di maggiore pregiudizio attendere l'esito di una sperimentazione volta al recupero della suddetta capacità, di cui non si conoscono i tempi ed il cui esito, considerato i precedenti, non presenta prognosi favorevole.
Avverso la decisione, la madre proponeva ricorso per Cassazione, lamentando la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione della legge 184/1983, della Convenzione di New York sui Diritti del Fanciullo, della Convenzione di Strasburgo, della Carta dei diritti fondamentali della UE, essendo stato violato il preminente interesse del minore di crescere ed essere educato nell'ambito della propria famiglia.
La Cassazione non condivide le difese formulate dalla ricorrente.
In punto di diritto gli Ermellini ricordano che l'art. 1 della l. n. 184 del 1983 sancisce il prioritario e fondamentale diritto del figlio di vivere, nei limiti del possibile, con i suoi genitori e di essere allevato nell'ambito della propria famiglia; ne deriva che siffatto diritto può essere limitato solo in caso di «extrema ratio» (Cass., n. 13435/2016 e n. 11758/2014) e che il giudice di merito deve, prioritariamente, tentare un intervento di sostegno diretto a rimuovere situazioni di difficoltà o disagio familiare e, solo quando, a seguito del fallimento del tentativo, risulti impossibile prevedere il recupero delle capacità genitoriali entro tempi compatibili con la necessità del minore di vivere in uno stabile contesto familiare, è legittima la dichiarazione dello stato di adottabilità (Cass. 22589/2017 e 6137/2015).
In relazione alla valutazione della situazione di abbandono, la giurisprudenza (Cass. n. 24445 del 2015) è costante nel ritenere che il giudice deve fondare il suo convincimento effettuando un riscontro attuale e concreto, basato su indagini ed approfondimenti riferiti alla situazione presente e non passata, tenendo conto della positiva volontà di recupero del rapporto genitoriale da parte dei genitori: solo un'indagine sulla persistenza – e non solo sulla preesistenza – della situazione di abbandono, svolta sulla base di un giudizio attuale (in particolare quando vi siano indizi di modificazioni significative di comportamenti e di assunzione d'impegni e responsabilità da parte dei genitori biologici) può condurre ad una corretta valutazione del parametro contenuto nell'art. 8 della legge 184/1983.
In particolare, ai sensi di quest'ultima norma, sussiste la situazione d'abbandono anche qualora la situazione familiare sia tale da compromettere in modo grave e irreversibile un armonico sviluppo psico-fisico del bambino, considerato in concreto: è irrilevante la disponibilità, meramente dichiarata, a prendersi cura dei figli minori, se la stessa non si concretizza in atti o comportamenti giudizialmente controllabili, tali da escludere la possibilità di un successivo abbandono ( Cass. 4097/2018).
Con riferimento al caso in esame, la Corte d'appello – sulla scorta del complessivo comportamento tenuto dalla madre, che non ha mai assunto, neppure dopo il suo rientro in Italia, alcuna valida iniziativa per riprendere idonei rapporti genitoriali con i figli minori – ha ritenuto di escludere, sotto l'aspetto prognostico, l'eventualità di un superamento dello stato di abbandono in tempi compatibili con l'interesse dei minori: correttamente la sentenza impugnata, esaminando la capacità genitoriale della madre, ha quindi concluso per un giudizio radicalmente negativo sulla volontà della stessa di recupero del rapporto genitoriale, sulla base di un contesto pregresso di fattori impeditivi e dell'insuccesso del programma di sostegno alla genitorialità.
Il ricorso viene quindi rigettato con condanna al pagamento delle spese processuali.
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