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Emotrasfusioni, SC: “Il contagio può essere accertato e provato dal CTU”

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Con l'ordinanza n. 3717 dello scorso 8 febbraio 2019, la Cassazione, pronunciandosi su una richiesta di risarcimento danni conseguenti ad infezioni da virus HCV contratte a seguito di emotrasfusioni, ha fornito importanti precisazioni sul come possano essere provati i fatti sottesi al contagio, ammettendo espressamente la consulenza percipiente e specificando che "quando l'accertamento di determinate situazioni di fatto possa effettuarsi soltanto con il ricorso a specifiche cognizioni tecniche, al CTU è consentito anche acquisire ogni elemento utile a rispondere ai quesiti, sebbene risultante da documenti non prodotti dalle parti, sempre peraltro che si tratti di fatti accessori rientranti nell'ambito strettamente tecnico della consulenza e non di fatti e situazioni che, essendo posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni delle parti, debbano essere dalle medesime necessariamente provati".

Un uomo citava in giudizio la Regione Emilia Romagna e l'ASL di Modena per ottenere il risarcimento dei danni patiti da contagio HCV contratto a seguito di una trasfusione di sangue infetto effettuata nel 1991 in una clinica di Modena, a seguito di un intervento chirurgico.

Si costituivano in giudizio gli enti convenuti, sollevando l'eccezione di prescrizione e chiedendo che, anche nel merito, la domanda venisse rigettata perché infondata.

Il Tribunale di Modena, respingeva l'eccezione di prescrizione: l'attore aveva, infatti, acquisito certezza dell'avvenuto contagio nel 1996 (circostanza risultante dalla documentazione in atti e non contestata) sicché l'azione proposta nel 2003 doveva ritenersi esercitata entro i termini di legge, conformemente all'orientamento giurisprudenziale secondo cui il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno da parte di chi assume di aver contratto una malattia per contagio da emotrasfusioni decorre dal giorno in cui tale malattia venga percepita o possa essere percepita usando l'ordinaria diligenza.

Nel merito, tuttavia, la domanda dell'attore veniva rigettata. 

 Il consulente tecnico d'ufficio nominato – dopo aver rintracciato i soggetti donatori delle sacche di sangue trasfuse e accertato, sulla base di esami compiuti su tali soggetti, che costoro non erano portatori di alcun virusescludeva con certezza che l'infezione da HCV fosse riconducibile alle trasfusioni effettuate presso il nosocomio modenese.

La Corte d'appello di Bologna confermava la sentenza di rigetto, valorizzando l'operato del CTU e la correttezza sia della procedura seguita che delle conclusioni raggiunte.

Avverso tale sentenza ricorreva in Cassazione il paziente deducendo violazione del riparto dell'onere della prova, stante l'assoluta impossibilità tecnica e giuridica di provare a della mezzo di consulenza circostanze che avrebbero invece dovuto essere provate dalle parti.

La Cassazione non condivide le censure formulate dal ricorrente.

In punto di diritto, la Corte ricorda come, per pacifica giurisprudenza, nel nostro ordinamento è ammessa la cosiddetta "consulenza percipiente": quando i fatti da accertare necessitano di specifiche conoscenze tecniche - come è naturale nei casi di accertamento della responsabilità medica – il giudice può affidare al consulente non solo l'incarico di valutare i fatti accertati (consulenza deducente), ma anche quello di accertare i fatti stessi (consulenza percipiente).

Ne deriva che in un caso – come quello oggetto di giudizio – di accertamento della responsabilità medica, la natura tecnico-specialistica delle conoscenze necessarie per siffatto accertamento impone una consulenza percipiente: non è quindi violata la regola del riparto dell'onere probatorio, atteso che la consulenza costituisce essa stessa fonte oggettiva di prova che ben può essere ammessa quando la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e il giudice ritenga che l'accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche.

 Nel caso di specie era stato lo stesso giudice ad affidare al CTU l'incarico di redigere la relazione peritale diretta ad accertare se il virus HCV fosse stato contratto a seguito delle trasfusioni praticate presso la struttura ospedaliera di Modena, autorizzandolo espressamente "ad esaminare tutta la documentazione medica, ad accedere agli archivi delle strutture sanitarie e a svolgere tutte le ricerche ritenute necessarie ed opportune".

Secondo gli Ermellini, l'oggetto e la portata di tale incarico è del tutto conforme con il principio giurisprudenziale secondo cui, quando l'accertamento di determinate situazioni di fatto possa effettuarsi soltanto con il ricorso a specifiche cognizioni tecniche, al CTU è consentito anche acquisire ogni elemento utile a rispondere ai quesiti, sebbene risultante da documenti non prodotti dalle parti, sempre peraltro che si tratti di fatti accessori rientranti nell'ambito strettamente tecnico della consulenza e non di fatti e situazioni che, essendo posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni delle parti, debbano essere dalle medesime necessariamente provati.

Nel caso di specie, i documenti, non prodotti in giudizio dalle parti e esaminati dal consulente tecnico, attengono ad un fatto (l'identità dei donatori delle sacche di sangue trasfuse al paziente in occasione dell'intervento del 1991) accessorio, non posto direttamente a fondamento della domanda, il cui accertamento era risultato necessario ed opportuno al fine dell'espletamento dell'incarico.

In virtù di tanto, la Corte conferma la legittimità dell'operato del consulente; avendo costui escluso che l'infezione fosse riconducibile alle trasfusioni effettuate, rigetta il ricorso.

 

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