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Carneade nel De re publica: "Per lui, la giustizia coincideva con l'utile"

Carneade nel De re publica: "Per lui, la giustizia coincideva con l'utile"

Originario del nord Africa e figura considerata minore fra i filosofi del suo tempo, è ricordato tuttavia come oratore appassionato (si dice dimenticasse di cibarsi per preparare i suoi lunghi discorsi tenuti in pubbliche piazze) e sottile dialettico.

Nel 155 a.C. Carneade fece parte, con Critolao e Diogene di Babilonia, della celebre ambasceria inviata a Roma dagli Ateniesi multati per aver saccheggiato Oropo; qui riscosse successo argomentando, in due giorni successivi, a favore e contro l'esistenza di una legge naturale universalmente valida. Le sue argomentazioni scettiche sulla giustizia scandalizzarono e sconvolsero gli ambienti della cultura conservatrice di Roma: egli affermava che se i Romani avessero voluto essere giusti avrebbero dovuto restituire i loro possessi agli altri e andarsene, ma in tal caso sarebbero stati stolti. In questo modo arrivò alla conclusione che saggezza e giustizia non andassero d'accordo. Così scrisse Cicerone nel De Re Publica:

«...ed espose tale tesi: tutti i popoli dominatori, innanzitutto i Romani capi del mondo, se avessero voluto essere giusti con il rendere le altrui proprietà, avrebbero dovuto ritornare come poveri alla vita nelle capanne»


Fu uno scettico radicale e il primo filosofo a sostenere il fallimento dei metafisici che volevano scoprire un significato razionale nelle credenze religiose. Criticò lo stoicismo ad Atene e fu scolarca dell'Accademia platonica.


Carneade, pur ammettendo che niente può essere in senso assoluto criterio di verità, sosteneva l'impossibilità di conoscere, perché un essere umano, in quanto tale, sospende il giudizio su tutte quante le cose. A suo avviso infatti c'è differenza tra il "non evidente" e il "non comprensibile": infatti tutte le cose sono incomprensibili ma non tutte sono non evidenti. Questa distinzione, che tendeva a salvare in un certo modo l'evidenza del fenomeno, portò poi Carneade a stabilire comunque un criterio che se "non era vero" era però "probabile" (pithanon). I suoi critici, tuttavia, sottolineano come tendesse a mutare pensiero nel raggio di un breve tempo e anche per questa ragione, forse, il suo insegnamento è risultato piuttosto frammentato (oltre che per il fatto che non lasciò nulla di scritto, tanto che sarebbe poi toccato a un suo discepolo – Clitomaco, originario di Cartagine – esporne le argomentazioni nei propri scritti, peraltro andati perduti).

Carneade è conosciuto – e spesso nominato come sinonimo di persona poco nota – in ragione della celebre citazione contenuta ne I promessi sposi di Alessandro Manzoni. Nell'incipit dell'VIII capitolo, don Abbondio, uno dei personaggi principali del romanzo, è nella sua stanza che legge un panegirico in onore di San Carlo Borromeo, all'interno del quale è menzionato il filosofo. È a questo punto che esclama tra sé e sé la lapidaria battuta, destinata a diventare a suo modo famosa (e a condizionare molte biografie di personaggi considerati, appunto, dei "carneadi" per antonomasia): "Carneade! Chi era costui?".

Di Carneade, come detto, scrisse Cicerone. Un passo che ci illustra i ragionamenti di Carneade è questo in cui la differenza fra i vari popoli nella pratica del diritto è spiegabile con il fatto che esso deve essere in sintonia con ciò che viene considerato utile. Ne deriva che non la giustizia, bensí l'utilità è il valore che sta a fondamento delle conquiste romane.
Cicerone, De re publica, III, 12 e 15
1.O se vorrà seguire la giustizia, pur essendo ignaro del diritto derivante dalla divinità, abbraccerà come vero diritto le leggi del proprio popolo che furono escogitate non già dalla giustizia ma dall'utile. Per qual ragione infatti si sarebbero costituiti svariati e differenti diritti secondo ogni popolo, se non per il fatto che ciascuna nazione sancí per se stessa ciò che ritenne vantaggioso per sé? Quanto sia distante l'utile dal giusto lo dimostra lo stesso popolo romano, che con l'indire guerre servendosi dei feziali e commettendo legalmente dei soprusi e sempre bramando e rapinando l'altrui si procacciò il dominio di tutto il mondo.
2.Gli uomini sancirono il diritto per proprio utile, dal momento che esso venne spesso cambiato a seconda dei costumi e nell'àmbito di una medesima società a seconda dei tempi, e pertanto non esiste alcun diritto naturale; tutti, sia uomini sia gli altri esseri viventi sono portati all'utile proprio, sotto la guida della natura; di conseguenza o non esiste affatto la giustizia o , se essa esiste in qualche modo, è il colmo della stoltezza, perché in servizio del vantaggio altrui nuocerebbe a se stessa.
3.Inoltre primo stimare il patrio vantaggio nel caso che si eliminasse la discordia tra gli uomini, si ridurrebbe a nulla. Che è infatti il vantaggio della patria se non il danno di un'altra città o di un altro popolo? cioè allargare i confini con acquisti strappati ad altri con la violenza, ingrandire il dominio, imporre tributi maggiori...

4.Pertanto chi abbia procacciato alla propria patria questi beni, come essi li chiamano, chi cioè abbia riempito l'erario di danaro a costo della distruzione di città e dell'annientamento di popoli, che abbia occupato territori, chi abbia reso piú ricchi i propri cittadini, questi è innalzato con le lodi fino al cielo, in costui si ritiene che consista somma e perfetta virtú; ed è questo un errore non soltanto del volgo e degli ignoranti, ma anche dei filosofi, che perfino dànno insegnamenti per l'ingiustizia, perché dottrina ed autorità non vengano a mancare alla stoltezza ed alla malvagità.
[...]
5.Tutti i popoli fiorenti per domíni, ed in particolare i Romani che si impadronirono di tutto il mondo, se volessero essere giusti, cioè restituire le cose altrui, dovrebbero ritornarsene alle capanne e giacersene in povertà e miseria...
(Cicerone, Opere politiche e filosofiche, UTET, Torino, 1953, vol. I, pagg. 178-179 e 181)

 

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