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Con la sentenza n. 16366 dello scorso 30 aprile, la IV sezione penale della Corte di Cassazione ha confermato la condanna per furto inflitta ad una donna che aveva sottratto un bancomat collocato in una borsa all'interno di una sagrestia, considerando irrilevante la circostanza che il bancomat non fosse di proprietà del parroco, ma di un terzo.
Si è, difatti, precisato che "la sagrestia, in quanto funzionale allo svolgimento di attività complementari a quelle di culto, servente non solo l'edificio sacro ma altresì la casa canonica, deve ritenersi luogo destinato in tutto o in parte a "privata dimora", essendone l'ingresso di terze persone selezionato ad iniziativa di chi ne abbia la disponibilità. Ai fini dell'integrazione del reato non è richiesto, quale necessario presupposto, che la persona offesa coincida con lo stesso soggetto cui pertenga la disponibilità del luogo, con potere di escluderne l'eventuale accesso a terzi. Una volta che venga concesso alla terza persona di accedere al luogo di privata dimora, l'eventuale illecita sottrazione di un bene di proprietà del terzo non fa venir meno la qualificazione del reato come furto in abitazione, in quanto perpetrato in un luogo che, per l'appunto, secondo i canoni interpretativi indicati dalla giurisprudenza di legittimità, si connota certamente quale luogo di privata dimora".
Il caso sottoposto all'attenzione della Cassazione prende avvio dall'esercizio dell'azione penale nei confronti di una donna, ritenuta responsabile per avere sottratto una carta bancomat da un borsellino di proprietà di una signora, che aveva collocato il borsellino all'interno di una borsetta lasciata nella sagrestia di una chiesa, ove l'imputata si era recata per svolgere attività di volontariato.
All'imputata le veniva altresì contestato di aver, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, al fine di trarne profitto, indebitamente utilizzato la carta bancomat, effettuando quattro diversi prelievi di denaro presso lo sportello di una Banca, per una complessiva somma di euro 1.350,00, altresì effettuando acquisti per un importo di euro 149,00 presso un esercizio commerciale.
Per tali fatti, la Corte di appello di Brescia condannava la donna alla pena di anni quattro, mesi sei, giorni dieci di reclusione ed euro 1.334,00 di multa per le ipotesi delittuose di cui all'art. 624 bis c.p. e di cui agli artt. 81 cpv. e 493 ter c.p..
Ricorrendo in Cassazione, l'imputata censurava la decisione evidenziando violazione dell'art. 624-bis cod. pen., sul presupposto che la condotta contestatale, correttamente qualificabile come furto semplice, non poteva integrare la fattispecie del furto in abitazione, considerato che la nozione di privata dimora poteva essere riferita unicamente al parroco, e non già a lei, che si era recata all'interno della sagrestia solo come ospite, per svolgervi attività di volontariato.
Ne derivava – secondo la difesa della donna – che l'imputata non poteva avere né la disponibilità né un rapporto di stabilità con la sagrestia della chiesa, peraltro essendole precluso, a differenza del parroco, l'esercizio di un qualsiasi jus excludendi.
La Cassazione non condivide le doglianze formulate.
Gli Ermellini evidenziano che la sagrestia, in quanto funzionale allo svolgimento di attività complementari a quelle di culto, servente non solo l'edificio sacro ma altresì la casa canonica, deve ritenersi luogo destinato in tutto o in parte a "privata dimora", essendone l'ingresso di terze persone selezionato ad iniziativa di chi ne abbia la disponibilità.
Sul punto, la giurisprudenza ha chiarito che ai fini della configurabilità del reato previsto dall'art. 624 bis c.p., rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale.
In particolare, la nozione di privata dimora, di rilievo ai sensi dell' 624 bis c.p., ha una natura esclusivamente obiettiva, riferendosi unicamente al luogo fisico, e non già alla persona del derubato. Ai fini dell'integrazione del reato non è richiesto, quale necessario presupposto, che la persona offesa coincida con lo stesso soggetto cui pertenga la disponibilità del luogo, con potere di escluderne l'eventuale accesso a terzi. Una volta che venga concesso alla terza persona di accedere al luogo di privata dimora, l'eventuale illecita sottrazione di un bene di proprietà del terzo non fa venir meno la qualificazione del reato come furto in abitazione, in quanto perpetrato in un luogo che, per l'appunto, secondo i canoni interpretativi indicati dalla giurisprudenza di legittimità, si connota certamente quale luogo di privata dimora.
In relazione al caso di specie, gli Ermellini evidenziano come la corte di merito correttamente abbia qualificato il reato quale furto in abitazione, posto che – sebbene la disponibilità della sagrestia e del relativo jus excludendi dei terzi perteneva, in via esclusiva, alla persona del parroco – cionondimeno tale circostanza non implicava il conseguente esonero della responsabilità penale, sul presupposto che la sottrazione del bene sarebbe stata effettuata in danno di una terza persona e non già del parroco.
In conclusione, la Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
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Nel 2010 mi sono laureata in giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Bari; nel 2012 ho conseguito sia il Diploma di Specializzazione per le Professioni Legali presso l'Ateneo Barese che il Diploma di Master di II livello in "European Security and geopolitics, judiciary" presso la Lubelska Szkola Wyzsza W Rykach in Polonia.
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