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Ricorsi amministrativi: tutto ciò che eccede il limite dei 70.000 caratteri è tamquam non esset.

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Nel processo civile, i principi di chiarezza e sinteticità, hanno fatto ufficialmente ingresso solo con l'entrata in vigore D. Lgs. 10 ottobre 2022 n. 149, che ha riformulato l'art. 121 del codice di procedura civile.

Al mancato rispetto di tali principi, però, le norme processuali civili non fanno conseguire alcuna sanzione di inammissibilità dell'atto giudiziario.

L'articolo 46 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura civile, infatti, stabilisce che il mancato rispetto delle specifiche tecniche sulla forma e sullo schema informatico e dei criteri e limiti di redazione dell'atto non comporta invalidità, ma può essere valutato dal giudice (unicamente) ai fini della decisione sulle spese del processo.

Nel processo amministrativo, invece, un decreto del Presidente del Consiglio di Stato del 22 dicembre 2016 ha introdotto, per i ricorsi ordinari, il limite massimo di 70.000 caratteri, al netto dell'epigrafe, delle conclusioni, della premessa riassuntiva e degli spazi, stabilendo, altresì, che il giudice amministrativo è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti e che l'omesso esame delle questioni contenute nelle pagine successive al limite massimo, non è motivo di impugnazione. 

Lo scorso 13 ottobre, la quarta sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 8928/2023, ha dichiarato inammissibile un appello, per carenza dei requisiti essenziali, poiché il ricorso, esteso in ben 87 pagine, illustrava i motivi d'appello oltre il limite dei 70.000 caratteri, dunque, in quella parte del ricorso che, secondo quanto previsto dal decreto del 22 dicembre 2016, il giudice non è obbligato ad esaminare.

Secondo il Consiglio di Stato, una corretta interpretazione della norma in parola impone di considerare tale previsione non come tesa a riconoscere al giudice la facoltà di esaminare o meno le questioni trattate nelle pagine successive al limite massimo, ma, invece, in ossequio ai principi di terzietà e imparzialità, come diretta ad introdurre un vero e proprio obbligo a non esaminare le questioni che si trovano oltre il limite massimo di pagine. 

 Il superamento dei limiti dimensionali, hanno concluso i giudici di Palazzo Spada, è questione di rito afferente all'ordine pubblico processuale, stabilito in funzione dell'interesse pubblico all'ordinato, efficiente e celere svolgimento dei giudizi, ed è rilevabile d'ufficio a prescindere da eccezioni di parte. Inoltre, il rigoroso rispetto dei limiti dimensionali costituisce attuazione del fondamentale principio di sinteticità (art. 3 c.p.a.), a sua volta ispirato ai canoni di economia processuale e celerità.

Dunque, il ricorso, in presenza di motivi di appello che il collegio non è tenuto ad esaminare, perché esposti oltre il limite dimensionale consentito, diviene inammissibile perché, in relazione ad una parte essenziale per la identificazione della domanda - richiesta dall'art. 44, comma 1, lett. b) c.p.a. a pena di nullità -, viene meno l'obbligo di provvedere e con esso la stessa possibilità di esame della domanda.

 

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