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Con la pronuncia n. 7117 dello scorso 17 marzo, la II sezione della Corte di Cassazione ha fornito interessanti precisazioni in tema di indennizzo per irragionevole durata del processo, cassando un decreto che aveva rigettato la domanda poiché, essendosi protratta per quindici anni la procedura fallimentare, il ricorrente aveva ottenuto l'integrale soddisfacimento dei propri crediti di lavoro, grazie al vittorioso esperimento di una serie di azioni revocatorie.
Si è difatti specificato che "il protrarsi della tempistica di effettivo soddisfacimento dei crediti insinuati al passivo fallimentare in alcun modo può essere intesa come forma di vantaggio per creditori medesimi, che invece vedono dannosamente differito il momento del soddisfacimento del loro diritto al riparto fallimentare, con conseguente perdita dei vantaggi personali conseguibili da una sollecita risposta del servizio giustizia".
Il caso sottoposto all'attenzione della Corte prende avvio dall'instaurazione di un giudizio per ottenere l'indennizzo dell'irragionevole durata di un fallimento.
La Corte di Appello di Venezia respingeva la domanda proposta da un creditore, sul rilievo che, ai sensi dell'art. 2 comma 2 septies della legge 89/2001, il danno è insussistente quando la parte ha conseguito, per effetto della irragionevole durata del processo, vantaggi patrimoniali eguali o maggiori rispetto alla misura dell'indennizzo altrimenti dovuto e, nel caso di specie, era stato proprio il protrarsi della procedura a far acquistare alla massa attiva ulteriore liquidità che aveva permesso al ricorrente di ottenere l'integrale soddisfacimento del proprio credito, grazie all'esperimento vittorioso di numerose azioni revocatorie, così ottenendo un vantaggio patrimoniale pari o superiore all'indennizzo cui avrebbe diritto, con conseguente venir meno del relativo diritto.
Il creditore, ricorrendo in Cassazione, censurava il decreto per violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2 comma 2 septies della legge 89/2001, assumendo l'errore della Corte nel reputare che il soddisfacimento del credito da lavoro, intervenuto a distanza di quindici anni dalla dichiarazione del fallimento, potesse costituire il "vantaggio patrimoniale" predicato dalla disposizione normativa: a tal riguardo, il ricorrente postulava come la norma avrebbe fatto riferimento non già alla soddisfazione del credito vantato, bensì a un beneficio aliunde conseguito, nelle more del procedimento; beneficio, quindi, ulteriore e diverso rispetto al soddisfacimento del diritto in controversia.
La Cassazione condivide le difese del creditore.
Gli Ermellini ricordano che, la compensazione tra durata e vantaggio è possibile qualora il protrarsi del giudizio abbia risposto ad un effettivo interesse della parte che poi ha agito in equa riparazione, nel senso che l'allungamento dei tempi di durata sia stato da lei percepito come destinato a produrre conseguenze a lei favorevoli - nella fattispecie, di natura patrimoniale - e sia stato da lei ritenuto, perciò, utile.
È, allora, necessario, che si tenga conto, da un lato, della questione dibattuta nel processo e delle aspettative conseguentemente riposte nel suo esito e, dall'altro, del comportamento processuale della parte, in particolare se questa abbia mostrato di volersi avvalere dei mezzi di difesa offertigli dall'ordinamento non già per conseguire la pronuncia desiderata, ma per trarre un vantaggio patrimoniale diverso e ulteriore.
In relazione alle procedure concorsuali, si è chiarito che il protrarsi della tempistica di effettivo soddisfacimento dei crediti insinuati al passivo fallimentare in alcun modo può essere intesa come forma di vantaggio per creditori medesimi, che invece vedono dannosamente differito il momento del soddisfacimento del loro diritto al riparto fallimentare, con conseguente perdita dei vantaggi personali conseguibili da una sollecita risposta del servizio giustizia.
Con specifico riferimento al caso di specie, gli Ermellini evidenziano come, secondo la Corte di appello, il vantaggio patrimoniale conseguito per effetto dell'irragionevole durata della procedura fallimentare, per lo meno eguale alla misura dell'indennizzo altrimenti dovuto, si identificherebbe con la riscossione del credito vantato nei confronti del fallito, a distanza di parecchi anni dall'inizio della procedura e con conseguente patema d'animo derivante dal protrarsi della stessa.
Tuttavia, il postulato secondo il quale il protrarsi della procedura avrebbe consentito la realizzazione di un attivo utilizzato per saldare i crediti vantati dagli istanti, non s'avvede che lo scopo della procedura è proprio quello di permettere ai creditori (e, in primo luogo, di quelli privilegiati) di conseguire la soddisfazione dei rispettivi diritti, nel rispetto della par condicio e delle priorità stabilite dalla legge.
Conseguentemente, il raggiungimento di un tal scopo non può reputarsi, di norma, vantaggio patrimoniale ulteriore e diverso, effetto della non ragionevole durata di essa.
Ne deriva che, anche qualora si fosse accertato che l'allungamento, oltre il tempo ragionevole, della procedura avesse procurato l'implemento dell'attivo, così divenuto capiente al fine di soddisfare il creditore che lamentava l'irragionevole durata, ad ogni modo doveva escludersi l'ipotesi del "vantaggio patrimoniale" contemplato dalla legge in via d'eccezione, non essendoci – nel caso concreto – un vantaggio diverso e ulteriore, figlio della durata del processo, ma estraneo alla finalità propria del processo, bensì della soddisfazione del credito.
In conclusione, la Cassazione accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e rinvia alla Corte d'Appello di Venezia, altra composizione, anche per il capo delle spese del giudizio di legittimità.
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