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C'è una differenza non di poco conto tra il cambiare idea e il cambiare bandiera. Carlo Nordio, oggi Guardasigilli, ieri magistrato, sembra abbia dimenticato la differenza, e anche questa non è roba di poco conto. Non lo è, perchè si parla della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, uno dei capisaldi della nostra architettura costituzionale.
La polemica esplosa dopo la pubblicazione da parte dell'ANM della lettera firmata da Nordio nel 1994, in cui si dichiarava contrario alla divisione tra requirenti e giudicanti, non è una semplice memoria d'antan, ma una bomba che smaschera il ministro. Perché, nel frattempo, il Senato ha approvato la riforma che quella separazione introduce. Proposta e firmata proprio da Nordio.
Ma non finisce qui. A chi gli chiede conto di quella contraddizione evidente, Nordio risponde che il suo cambio di rotta sarebbe stato causato da un fatto tragico: il suicidio di un indagato, Gino Mazzolaio, che si tolse la vita nel 1993 in seguito a un'inchiesta condotta dallo stesso Nordio. Peccato – e qui la verità inciampa malamente – che la lettera contraria alla separazione sia dell'anno successivo. Un dettaglio? No. Una smentita secca, precisa quanto le lancette di un cronometro, imbarazzante.
Il punto non è tanto la memoria del ministro, e nemmeno la legittimità del suo "ravvedimento" alla miglior causa della separazione. È il metodo, la logica strumentale con cui si costruisce una narrazione a posteriori per legittimare una riforma che non serve a migliorare la giustizia, ma a ridurre i controlli di una magistratura depotenziata sull'esecutivo, a garantire immunità preventiva per la politica, a colpire i PM e inchiodare il giudice al ruolo di "notaio".
A chi risponde Nordio oggi? Certamente non ai magistrati, né ai principi che aveva dichiarato di voler difendere. Risponde a chi da anni vuole una giustizia meno autonoma, meno indipendente, più "addomesticabile". Risponde al progetto politico di una destra che vuole disinnescare il potere giudiziario. A una classe dirigente che ha paura dei processi e ama solo le sentenze favorevoli. Dunque non si tratta di obnubilamento temporaneo, nè di amnesia, nè di confusione, ma di strategia.
La contraddizione tra ciò che Nordio pensava trent'anni fa e ciò che fa oggi è il portato di un calcolo politico. Oggi fa comodo svuotare la magistratura, oggi servono CSM separati, giudici "estratti a sorte", un PM ridotto a controfigura dell'accusa. Oggi fa comodo dissimulare il passato, negare l'evidenza, usare il dolore (vero) di un suicidio come leva propagandistica.
Ma usare una tragedia privata per giustificare una svolta di questa portata è un gesto grave. Non si manipola la memoria delle vittime per ragioni ideologiche. Nè quella di Falcone, che come ha affermato il presidente Alfredo Morvillo, non ha mai sostenuto la separazione delle carriere, nè quella di Borsellino che l'ha apertamente combattuta, nè quella del povero Mazzolaio. È indegno farlo perchè è una linea rossa che nessun essere umano, e ancor di più un ministro della Giustizia, non può oltrepassare. Nordio lo ha fatto. E lo ha fatto con consapevolezza. E dovrebbe dimettersi all'istante solo per questo.
È tempo che la magistratura – tutta, non solo l'ANM – prenda posizione. Che i giornalisti scrivano con più forza, che l'opinione pubblica veda oltre la cortina fumogena delle dichiarazioni di comodo. Oggi il punto non è se Nordio ha cambiato idea, cosa che, oltretutto, non interessa a nessuno. Il punto è perché l'ha fatto, a chi conviene questo cambio di rotta, e a quale logica di potere risponde. Ed è una logica che ha poco a che fare con la giustizia, e molto con qualcosa che i giusti hanno sempre combattuto. In nome della Costituzione.
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