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«Divide et impera», intervista all'avvocato Gurrieri: ecco perchè la riforma Nordio è sbagliata e incostituzionale

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Dopo il via libera del Senato il 22 luglio alla riforma costituzionale sulla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, si intensifica il dibattito pubblico in vista del referendum confermativo. Ne parliamo con Pietro Gurrieri, avvocato, saggista e autore del libro "Divide et impera. La separazione delle carriere e i rischi di eterogenesi dei fini" uscito in questi giorni per Bonanno editore.

LR. Avvocato Gurrieri, partiamo dalle origini. Perché nel suo libro lei sostiene che la riforma sia incompatibile con l'impianto pensato dai Costituenti?

PG. Perché lo è nei fatti e nei testi. La Costituente esaminò a fondo l'assetto dell'ordinamento giudiziario e scelse consapevolmente l'unicità della carriera. «I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni. ll pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario», recita l'art. 107 della Costituzione. La magistratura – disse Meuccio Ruini – «ha fatto una grande conquista: piena garanzia per le nomine, per l'inamovibilità, per l'assoluta autonomia dei giudici di fronte al potere esecutivo». I Costituenti rifiutarono ogni forma di subordinazione del pubblico ministero al Governo, che è esattamente quello cui si potrebbe arrivare. È tutto nel libro, nero su bianco, in un intero capitolo che ricostruisce quel dibattito: i Costituenti si espressero contro la separazione, la duplicazione del CSM, l'istituzione di una distinta Corte disciplinare: la riforma Meloni-Nordio è in rotta di collisione con quelle scelte fondative.

LR. Il Governo però sostiene che la separazione serve a garantire la terzietà del giudice. Perché lei la giudica, invece, una riforma pericolosa per i cittadini?

PG. Perché produce esattamente l'effetto contrario. Come scrivo nel libro, spezzare l'unitarietà della giurisdizione, alterare gli organi di autogoverno, significa ridefinire i rapporti tra poteri dello Stato in senso regressivo. Il rischio è di generare un pubblico ministero sganciato dalla cultura della giurisdizione, che smetta di essere un magistrato imparziale alla ricerca di una verità per trasformarsi in «un avvocato dell'accusa volto ostinatamente al raggiungimento del risultato», in una sorta di superpoliziotto, tanto più solido perchè rappresentato e tutelato da un CSM proprio, distinto. Questo non rafforza le garanzie, le riduce. 

LR. È quindi questo che lei definisce, nel titolo del libro, "eterogenesi dei fini"?

PG. Esattamente. Lo spiegava già Wundt: le azioni umane, anche animate da buone intenzioni, possono produrre effetti opposti a quelli desiderati. È ciò che accade qui. Il Governo dice di voler proteggere i cittadini, ma di fatto li espone. Allontanare il pubblico ministero dal giudice sotto il profilo ordinamentale determinerebbe un progressivo abbandono della sua fondamentale dimensione. Lo scopo dichiarato è l'efficienza e la neutralità; il risultato sarà una giustizia più politicizzata e meno equa. E, aggiungo, di una giustizia dei ricchi.

LR. In questo contesto, lei ha dedicato un intero capitolo del libro alla comparazione con gli ordinamenti esteri. Qual è la situazione in Europa e negli Stati Uniti?

PG. La retorica governativa ripete che "così si fa in tutto il mondo". Ma i fatti dicono ben altro. Nei Paesi dove le carriere sono separate – tutti quelli da me studiati, e quindi Francia, Germania, Olanda e Belgio, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti, qualcosa meno il Portogallo – il pubblico ministero è strutturalmente sottoposto al potere esecutivo. In Francia e Germania, ad esempio, il ministro della Giustizia può dare istruzioni vincolanti ai procuratori. Negli Stati Uniti, i district attorney sono in molti casi eletti con mandato politico, o nominati. Come spiego nel libro, l'Italia non è un'anomalia, ma un modello peculiare e solido, e questo modello garantisce più indipendenza, non meno. Non è un caso che, in quei Paesi, si guardi da tempo al modello italiano che, ironia della sorte, il Governo italiano intende ora cambiare.

LR. Quali esempi può offrirci per rendere chiara questa differenza?

PG. Ne cito solo due, rinviando alla lettura del libro su questo. In Germania, l'Oberstaatsanwalt (procuratore) riceve ordini dal Land o dal Ministero federale. La Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha persino escluso i PM tedeschi dal novero delle "autorità giudiziarie" titolate ad emettere mandati d'arresto europeo, proprio per mancanza d'indipendenza. In Francia, il Guardasigilli può, per legge, indirizzare l'azione penale. Si potrebbe continuare a lungo. È questo il futuro che vogliamo? Un PM che indaga a seconda dell'agenda del governo in carica?

LR. Un altro punto critico che lei solleva è il sistema del sorteggio dei membri del CSM, e poi anche dell'Alta Corte. Perché è una scelta sbagliata?

PG. Perché è una scelta che umilia la democrazia e unica nel pianeta. Inoltre, con ogni probabilità, viola la Costituzione. Lo scrivo nel capitolo sulla composizione degli organi di autogoverno. Sono persuaso che non sia solo assolutamente irragionevole, ma anche contrario alla Costituzione che un organo di rilevanza costituzionale sia composto per sorteggio. Soprattutto se – come accade nel testo approvato – si introduce un sorteggio differenziato tra i togati dei due Consigli Superiori (giudicante e requirente) e per i laici, riguardo ai quali si adotta una formula ibrida e contraddittoria di nomina parlamentare mediata dal sorteggio. Una simile ingegneria istituzionale fa a pugni con l'art. 105 Cost. e mina la rappresentatività dell'organo. Non solo, ma è un messaggio di prepotenza di un potere dello Stato (il legislativo) rispetto ad un potere di pari dignità (il giudiziario). È come se il primo dicesse al secondo: la scelta dei tuoi rappresentanti rimane affidata al caso, la scelta dei miei no, perchè estraggo dall'una i bussolotti che prima mi sono scelto. Con tutto il rispetto, roba da matti. 

LR. Infine, l'Alta Corte disciplinare. Perché la giudica incostituzionale?

PG. Non spetta a me, ma indico tre ragioni principali. Primo, perché sottrae al Consiglio Superiore della Magistratura la funzione di autotutela disciplinare, affidandola a un organo "speciale". Secondo, perché l'accesso alla Corte discrimina alcune categorie magistratuali rispetto ad altre e questo non mi pare sia compatibile con la Carta. Terzo, perchè se si chiamano a far parte dell'organo magistrati che fanno parte o hanno fatto parte di quell'altro che esercita l'azione disciplinare, ad essere violata è la regola dell'imparzialità presiediata dall'art. 97 Cost., perchè non si può essere giudici e parti. Rimane poi la questione irrisolta della ricorribilità in Cassazione delle decisioni.

LR. In conclusione?

PG. In conclusione, è una riforma bocciata. Non da me soltanto, ma da larghissima parte della magistratura, del mondo accademico, del CSM, della Corte di Cassazione. E siccome non è mio costume tirare in ballo i morti come hanno fatto anche membri del Governo per dar manforte alle proprie tesi, io qui mi limito a far mio l'accorato invito del presidente Alfredo Morvillo a smetterla di citare a sproposito chi non è mai stato favorevole alla separazione delle carriere. Un caduta di stile che il Governo, la maggioranza e alcuni avvocati avrebbero potuto risparmiarsi. In ogni caso, come scrivo nelle ultime pagine del libro, la riforma Nordio non è una questione tecnica. È una questione democratica. Per questo, l'appuntamento è al referendum confermativo: sarà il momento in cui i cittadini potranno scegliere se difendere la Costituzione o accettarne lo stravolgimento.

(Le domande all'Autore sono state poste dal dr. Francesco La Rosa, Giornalista professionista).


 

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