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Illegittima sospensione in CIGS e danno alla professionalità.

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 Cass., ord. n. 1267/2024

Il danno alla professionalità consiste nel pregiudizio derivante dal depauperamento della capacità professionale acquisita dal lavoratore in conseguenza di una forzata inattività o di un demansionamento.

In via di principio, la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, ravvisa tale tipologia di danno in caso di demansionamento (ed in effetti, anche l'inattività non è altro che la forma più grave di demansionamento), ed in effetti, quasi tutte le pronunce che hanno contribuito a delineare i contorni del danno alla professionalità, sono scaturite da controversie in cui si controverteva sulla violazione dell'art. 2103 del codice civile.

Nell'ordinanza n. 1267 pubblicata il 16 aprile 2024, la sezione lavoro della Suprema Corte di Cassazione ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno alla professionalità ad una lavoratrice che era stata illegittimamente sospesa dal lavoro per Cassa Integrazione Guadagni, ed ha affermando, altresì, che la responsabilità del datore di lavoro che lasci inattivo il lavoratore in violazioni di disposizioni di legge o contrattuali (relative alla sospensione per cassa integrazione o alla normativa in tema di corretta assegnazione delle mansioni)  deriva dalla violazione di obblighi che discendono da norme che integrano il contratto di lavoro e, dunque, configura sempre una forma di responsabilità di natura contrattuale.

Il principio di massima

In caso di forzata inattività da Cassa Integrazione, il danno alla professionalità – per sua natura plurioffensivo - è un danno diverso dalla mancata percezione della retribuzione per illegittima collocazione in cig; essendo il primo legato appunto alla perdita della professionalità, dell'immagine professionale e della dignità lavorativa, laddove il secondo è di natura esclusivamente patrimoniale e deriva dalla mancata corresponsione e percezione della retribuzione derivante dal contratto.

Corte di Cassazione, sezione lavoro, ordinanza n. 1267, del 16 aprile 2024.

Il fatto.

Una lavoratrice, con mansioni di addetta all'ufficio del personale, agiva in giudizio per far accertare l'illegittimità della sospensione dal lavoro per Cassa Integrazione ed ottenere la condanna della società datrice al risarcimento del danno alla professionalità derivante dalla forzata inattività.

Il tribunale, ritenendo del tutto carenti di motivazioni e di specificità gli atti richiamati a sostegno della cassa integrazione, dichiarava l'illegittimità della sospensione, senza tuttavia accogliere la richiesta risarcitoria.

La Corte d'appello, in parziale riforma della decisione di primo grado, accertato che, nel caso di specie, la lavoratrice era stata lasciata forzatamente inattiva per oltre 10 anni e non era stata mai chiamata a frequentare corsi formativi propedeutici per farla rientrare al lavoro, riteneva che ciò avesse cagionato necessariamente il depauperamento della sua professionalità e, pertanto, condannava la società datrice al pagamento della somma pari al 30% della retribuzione mensile netta percepita dalla lavoratrice a titolo di danno alla professionalità per tutto il periodo di illegittima sospensione in CIG, oltre alle spese del giudizio.

Per l'annullamento della decisione della Corte territoriale, ricorreva in Cassazione la società datrice di lavoro, articolando tre distinti motivi, tra cui, per quanto di interesse in questa sede, la violazione degli artt. 1223,2103,2697 c.c., per avere la Corte d'appello riconosciuto il danno alla professionalità alla lavoratrice da inattività forzata richiamando una giurisprudenza, secondo il ricorrente, estranea alla fattispecie, perché riferita alla diversa violazione dell'art. 2103 c.c.; ossia ad un'inattività forzata, come tale distinta e diversa dalla sospensione in Cigs.

La decisione della Cassazione.

Anzitutto, i giudici della Corte hanno ritenuto che la Corte d'appello, nel riconoscere alla lavoratrice il danno alla professionalità, da valutarsi e quantificarsi in via equitativa, in misura pari ad un 30% della retribuzione netta mensile spettante alla stessa in costanza di rapporto, abbia fatto un corretto uso dei precedenti giurisprudenziali in materia.

In presenza di adeguate allegazioni, ha ricordato la Cassazione, è, infatti, oramai un dato assodato che, in presenza di forzata inattività protratta per lunghi periodi, sia ravvisabile un danno alla professionalità poiché il fatto di non aver potuto esercitare la propria prestazione professionale, oltre alle l'immagine professionale, può ledere professionalmente il lavoratore dal momento che una inattività a lungo protratta nel tempo cagiona il depauperamento del patrimonio professionale e conseguentemente la sua ricollocabilità sul mercato del lavoro. 

Il comportamento del datore di lavoro che lasci il dipendente in condizioni di inattività, prosegue il provvedimento, non solo contrasta con l'articolo 2103 c.c., ma è al tempo stesso lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell'immagine e della professionalità del dipendente ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza.

Quanto alla censura secondo cui il danno da inattività per Cigs sia differente da quello relativo all'inattività che discende dalla violazione dell'art. 2103 c.c. per svuotamento di mansioni o altri illeciti simili; ovvero l'uno sia di natura legale e di natura contrattuale, la Cassazione l'ha ritenuta prova di pregio.

Al contrario, ha affermato il Supremo Collegio, la responsabilità del datore di lavoro che lasci inattivo il lavoratore in violazioni di disposizioni di legge o contrattuali (relative alla sospensione per cassa integrazione o alla normativa in tema di corretta assegnazione delle mansioni) risulta in ogni caso discendente dalla violazione di obblighi che discendono da norme che integrano il contratto di lavoro e dunque configura sempre una forma di responsabilità di natura contrattuale.

Né si intuisce, prosegue il provvedimento, perché la fattispecie produttiva di responsabilità e di danno debba essere differente se l'illegittima inattività si produca nel corso dell'esecuzione del rapporto o in seguito ad illegittima sospensione ( o anche estinzione) del rapporto; posto che il danno che viene in rilievo è comunque un danno di natura professionale che si correla alla mancata esecuzione della prestazione, anche in base ad una regola presuntiva, che è poi quella che è stata posta dalla Corte d'appello alla base della liquidazione del danno.

Sul punto la sentenza ha, dunque, concluso affermando che il danno alla professionalità – per sua natura plurioffensivo - richiesto dalla lavoratrice e liquidato dal giudice d'appello è ovviamente un danno diverso dalla mancata percezione della retribuzione per illegittima collocazione in cig; essendo il primo legato appunto alla perdita della professionalità, dell'immagine professionale e della dignità lavorativa, laddove il secondo è di natura esclusivamente patrimoniale e deriva dalla mancata corresponsione e percezione della retribuzione derivante dal contratto.

Tale danno, infine, ben può essere liquidato prendendo a riferimento una quota della retribuzione che nella fattispecie la Corte di merito ha individuato nella misura del 30%; escludendo invece il danno esistenziale, morale e biologico per difetto di adeguata allegazione e prova. 

 

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