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C'è un momento in cui il confronto politico sulla giustizia rischia di debordare, di trasformarsi in qualcosa d'altro. Questo accade quando il diritto è piegato a fini di dissuasione, quando la politica rinuncia alla funzione alta della legislazione per concentrarsi su norme chirurgiche, selettive, punitive. È il caso della riesumazione, in queste settimane, della cosiddetta proposta Costa, che riporta con prepotenza sulla scena un progetto di riforma che si pensava archiviato, e che invece riemerge sempre uguale a se stesso: colpire il pubblico ministero, renderlo più timido, meno autonomo, meno libero.
Il disegno del Governo è evidente, e non si nasconde più dietro formule mediate, o di compromesso. Dopo aver sottratto al pubblico ministero, con la legge Nordio, il potere di appellare le sentenze di assoluzione per i reati punibili con pena fino a quattro anni – una norma già criticata per i suoi effetti distorsivi e selettivi – si cerca ora di colpirlo sul piano disciplinare e valutativo, per renderne ancora più rischioso e oneroso l'esercizio delle prerogative che ancora gli restano. Questo progetto segna il passaggio ad una logica sanzionatoria, di rappresaglia. Una logica che non possiamo astenerci dal definire aberrante: il pubblico ministero non deve solo rinunciare, deve imparare che insistere costa caro. Una logica del tutto priva di una ragionevole giustificazione: la riduzione dei ricorsi d'appello dopo il ddl Nordio è sotto gli occhi di tutti. Ma non basta, perchè il punto è, evidentemente, la costrizione della figura entro uno schema di subordinazione.
Si tratta, dunque, di un avvertimento, non di una riforma. È come se il potere esecutivo dicesse alla magistratura requirente: o sei docile, o sei esposta. Ed è inaccettabile. Perché ogni intervento normativo che incide non sul contenuto del processo, ma sul destino di chi concorre, per mandato costituzionale e dovere professionale, a promuoverlo, travalica il diritto e sconfina in un modus agendi autoritario. Tanto più, perchè qui ad essere sanzionato è l'uso legittimo e motivato di un potere previsto dalla legge.
Il problema non è solo giuridico. È culturale, iistituzionale. Si sta affermando, con apparente normalità, una concezione per cui l'accusa deve ritrarsi, restare in ombra, non disturbare. L'idea di una giustizia silenziosa, accomodante, selettiva, nella quale il potere possa esprimersi liberamente, senza fastidi, quasi fosse legibus solutus, come ai tempi dell'Impero. Costruendo così una legalità bifronte, come Giano: severa con i deboli, reverente con i forti.
E tutto questo avviene, e non è certo un caso, mentre si accarezza l'idea di separare le carriere, di riscrivere l'ordinamento giudiziario, di toccare persino la Costituzione. Non pago di tutto questo, l'esecutivo prova ad alzare la posta, a prendersi tutto il piatto. E nella specie, a modificare anche il comportamento dei singoli magistrati, rendendo costoso ogni atto di giurisdizione che contraddica l'ordine politico delle cose. Siamo oltre le leggi ad personam. Siamo all'uso del diritto come leva di intimidazione.
La magistratura – non solo quella associata, ma l'intera architettura costituzionale – non può tacere. Perché la questione non riguarda un ricorso o una sentenza. Riguarda l'equilibrio tra i poteri, il senso stesso di un ordine giudiziario libero, la tenuta della democrazia nei suoi presidi più esposti. Serve un'opposizione intransigente, e non è questione di colore politico. Ma anche e soprattutto una voce civile, forte, autorevole. Che ricordi, oggi come ieri, che il diritto non si scrive contro chi lo esercita. E che il pubblico ministero, quando impugna, non sfida lo Stato, ma lo serve.
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