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Grava sul lavoratore assente per malattia l’onere di provare che le attività extralavorative non pregiudicano la guarigione.

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 Nell'ambito del rapporto di lavoro, la malattia rappresenta un'ipotesi di temporanea impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa, la quale, però, non comporta la risoluzione del contratto di lavoro, bensì una mera sospensione dello stesso.

Durante la fase della malattia, l'assenza del lavoratore dal posto di lavoro è giustificata con diritto alla conservazione del posto, salvo superamento del periodo di comporto.

Trattandosi di ipotesi di temporanea impossibilità di esecuzione della prestazione, la malattia non fa venir meno gli effetti del contratto tra le parti, con la conseguenza che resteranno fermi i reciproci doveri di fedeltà, diligenza, lealtà e correttezza.

Ad avviso della giurisprudenza, pur non sussistendo a carico del lavoratore assente per malattia un divieto assoluto di svolgere altra attività, tuttavia, qualora il compimento di detta attività comprometta o rallenti la guarigione, si configura a carico del lavoratore una fattispecie di violazione dei doveri di fedeltà, di diligenza nell'esecuzione delle proprie obbligazioni, nonché, in generale, dei principi di buona fede e correttezza vigenti in materia contrattuale.

Inoltre, lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia, può giustificare il recesso del datore di lavoro – sempre per violazione dei citati doveri di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà – anche quando tale attività esterna sia per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, dimostrando, al contrario, una fraudolenta simulazione dello stato di malattia.

Secondo l'orientamento costante della giurisprudenza di legittimità, la malattia falsa, simulata o inesistente del dipendente è causa di licenziamento, tuttavia, grava sul datore di lavoro la prova della simulazione, atteso che l'art. 5 legge n. 604/1966 pone a carico del datore l'onere della prova di tutti gli elementi di fatto integranti la fattispecie che giustifica il licenziamento e, dunque, di tutte le circostanze, oggettive e soggettive, idonee a connotare l'illecito disciplinare contestato.

Nell'ordinanza n. 12994/2023, la Cassazione ha ritenuto idonei a provare la legittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore "sorpreso" a svolgere altra attività lavorativa durante il periodo di malattia, gli accertamenti investigativi effettuati dal datore di lavoro, ritenendo tali controlli non in contrasto con il generale divieto di controlli sulle infermità per malattia del lavoratore posto dall'art. 5 S.L., riguardando tali accertamenti un fatto materiale che integra un illecito disciplinare e non uno stato di malattia.

Nel provvedimento, poi, i giudici di legittimità hanno affermato che il lavoratore che svolga attività extralavorative durante il periodo di malattia, per non incorrere in sanzioni disciplinari, deve fornire la prova della compatibilità di tali occupazioni con il proprio stato di indisposizione.

Il fatto.

Il dipendente di una s.r.l. impugnava il licenziamento intimatogli all'esito di un procedimento disciplinare in cui gli era stato addebitato di aver simulato lo stato di malattia.

I fatti contestati erano stati accertati mediante indagini condotte da un'agenzia investigativa incaricata dal datore di lavoro a seguito delle quali era emerso che il dipendente, durante il periodo di sospensione dell'attività lavorativa per malattia, svolgeva attività di vario tipo (guida di auto, scooter o moto, scarico e carico di scatoloni, spazzamento del marciapiedi antistante l'esercizio commerciale intestato ai familiari, spostamenti a piedi, montaggio con altri di un portabagagli sulla propria vettura, carico e scarico di materiale edile).

Durante il contraddittorio disciplinare, il lavoratore non aveva contestato i comportamenti addebitatigli, ma si era limitato ad affermare che le attività esercitate non erano incompatibili con lo stato di malattia, non prescrivendo il certificato medico il riposo assoluto. 

 La tesi del ricorrente veniva accolta in primo grado, ma la sentenza, appellata dalla società datrice, veniva riformata dalla corte d'appello.

Secondo la corte territoriale il lavoratore non solo non aveva contestato le condotte che gli erano state addebitate, ma non aveva nemmeno assolto all'onere di fornire la prova della compatibilità con lo stato di malattia delle attività compiute durante la sospensione del rapporto lavorativo, il che presupponeva la dimostrazione che dette attività non avessero né pregiudicato né ritardato la guarigione.

Dall'assenza di tale prova conseguiva la responsabilità del lavoratore, cui era ascrivibile un comportamento imprudente per inosservanza delle prescrizioni mediche di "riposo e cure" che avevano di fatto ostacolato la guarigione.

Al contrario, continuava la corte d'appello, la società datrice aveva fornito la prova della giustificatezza del licenziamento, producendo la documentazione fotografica raccolta nel corso delle indagini investigative; documentazione che attestava l'espletamento da parte del dipendente di attività extralavorative durante il periodo di assenza per malattia.

Il lavoratore ricorreva in Cassazione, rilevando, tra gli altri motivi, la violazione dell'art. 2697 c.c. per inversione dell'onere della prova.


La decisione della Cassazione.

I giudici della Cassazione hanno reputato corretta la decisione della Cote territoriale, perché conforme al generale principio, più volte affermato, secondo cui lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, e ciò non solo nell'ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, ma anche nel caso in cui la stessa, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizi.

Anche per i giudici di legittimità lo svolgimento di attività lavorative o extra lavorative durante il periodo di malattia, in mancanza di specifica dimostrazione della compatibilità tra le medesime attività e la patologia documentata dal lavoratore, rappresenta una violazione del doveri di correttezza e buona fede, specie qualora il datore di lavoro abbia fornito la prova dell'effettivo svolgimento di tali mansioni.

Secondo la Corte, dunque, l'onere, gravante sul datore di lavoro, di provare tutti gli elementi di fatto integranti la fattispecie che giustifica il licenziamento, non ha una portata tale da comportare per il lavoratore una sostanziale impunità  rispetto a condotte comunemente qualificate come fraudolente ed in contrasto con i doveri di fedeltà, diligenza correttezza e buona fede che discendono dal contratto di lavoro.

 

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