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Dire "italiano di merda" o "talebano" non è reato, dire "negro" si, parola di giudice

Dire "italiano di merda" o "talebano" non è reato, dire "negro" si, parola di giudice

  Non può esservi dubbio che le offese di carattere razziale siano fra quelle più odiose e anche pericolose, perché implicitamente "degradano" l'avversario come persona, non già per il suo comportamento. Inoltre un passato non molto lontano dovrebbe far riflettere tutti sui pericoli insiti in questi deprecabili atteggiamenti. La parte del leone in questa (misera) classifica la fanno gli insulti che utilizzano termini riferiti a persone provenienti dal continente africano, primo fra tutti marocchino, seguito da negro, arabo, libico e africano. Com'è ovvio si tratta di parole per lo più neutre, ma che in un determinato contesto possono assumere il tono dell'offesa. Così la Cassazione ha ritenuto in una particolare circostanza che il termine extracomunitario integrasse la diffamazione (5553/08). Le tesi difensive tendenti a valutare asetticamente il significato di un termine sono sempre state rigettate dal Supremo Collegio, il quale ha ritenuto che sostantivare l'aggettivo che riflette la provenienza etnica di una persona ed apostrofare quest'ultima in tal modo, con evidente atteggiamento di scherno e dileggio, costituisce ingiuria (Cass. 19378/05). Se poi il sostantivo è aggettivato da altro termine chiaramente offensivo, l'aggravante dell'odio razziale è assicurata.

  Così il supremo collegio ha ritenuto sussistere l'aggravante nell'espressione "sporca negra" in quanto "combina la qualità negativa al dato razziale" e inoltre "non risulta adottata in occidente alternativamente l'espressione sporco giallo, né in Africa o Cina sporco bianco" (Cass. 9381/06). Meno rigido è invece l'atteggiamento dei giudici quando l'offesa razziale (o forse sarebbe meglio dire xenofoba) concerne uno straniero che proviene da uno Stato a noi vicino, quale ad esempio la Croazia. Probabilmente perché, dal colore della pelle, gli Europei vengono ritenuti appartenenti alla "nostra" razza. Dire "porco croato" a un cittadino di Zagabria è sì un'ingiuria, ma priva dell'aggravante razziale, in quanto la gente croata fa parte dello stesso popolo europeo (Cass. 39233/08). Se poi l'insultato è un italiano ed è insultato perché tale, il fatto costituisce sì reato, ma senza l'aggravante razziale. Quindi dire a un abitante del bel Paese "italiano di merda" non implica un disprezzo razziale, neanche se a dirlo è un…nero (come nel caso in esame). La Cassazione, che se ne è occupata con la sentenza 25.03.10 n.11590, ha voluto però precisare ancora una volta che l'esclusione dipende dal contesto in cui la frase era stata detta. Tuttavia tale motivazione sembra poco convincente: quando una persona viene chiamata con l'appellativo della nazionalità, appare evidente come il disprezzo portato dal secondo termine di natura escrementizia non può che essere denigratorio, oltre che della persona, della nazione alla quale appartiene.

 Un'ultima annotazione: dare del razzista è reato? Dipende: se è la reazione a un atteggiamento ritenuto illegittimo, l'agente va esente da pena. Alcuni poliziotti avevano fermato due cittadini nigeriani trattenendoli senza apparente motivo. Per questo un giovane fiorentino presente li aveva qualificati "razzisti". Da qui la querela e la condanna da parte del giudice di pace di Firenze a mille euro di multa; decisione ribaltata dalla Cassazione con sentenza 29338 del 2010 che ha ritenuto trattarsi di reazione legittima.

Nel linguaggio comune è poi entrato il termine talebano, che in origine indicava semplicemente gli studenti delle scuole coraniche (incaricati della prima sommaria alfabetizzazione, basata esclusivamente su testi sacri islamici). Successivamente questo termine è passato a indicare i fondamentalisti presenti soprattutto in Afghanistan e nel confinante Pakistan. A rigore, esso non designare una "qualità razziale", ma costituisce sempre un'indicazione legata alla provenienza (Afghanistan e Pakistan) ed è divenuto sinonimo di persona intollerante. Ebbene tale termine, secondo una massima della Cassazione, non è ritenuto lesivo della onorabilità, a patto che rimanga nell'ambito di un dibattito politico (15323/08).

 

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