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Il ministro Musumeci e la "giustizia killer": attacco eversivo alla Costituzione

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«Il magistrato ha il compito di fare il killer, la stampa ha il compito di darne notizia». Con queste parole, pronunciate a Ragalna, il ministro della Protezione civile e del mare, Nello Musumeci, ha superato ogni limite della dialettica politica. Non siamo di fronte a una battuta infelice o a un eccesso retorico: qui c'è un attacco diretto, frontale, alla magistratura e all'informazione, cioè a due pilastri della democrazia costituzionale.

Definire i magistrati "killer" non è solo un insulto gratuito, come ha giustamente affermato l'Associazione nazionale magistrati. È un'operazione culturale e politica di delegittimazione. È il tentativo di insinuare nell'opinione pubblica l'idea che chi esercita la funzione giurisdizionale lo faccia non in nome della legge e del popolo italiano, ma per una logica di parte, come braccio armato di un potere politico ostile. È la stessa retorica che prepara il terreno al progetto più pericoloso del Governo Meloni: la separazione delle carriere dei magistrati, cuore del cosiddetto ddl Nordio. Le parole di Musumeci, dunque, non vanno isolate. Esse sono la conferma plastica di un disegno: rendere la magistratura meno autonoma, più esposta al potere politico, e attraverso di essa normalizzare l'intero assetto costituzionale. Ecco perché non possiamo permetterci di sottovalutarle.

Nella mia ultima opera, Divide et impera. La separazione delle carriere e i rischi di eterogenesi dei fini, ho dimostrato come questa riforma non abbia nulla a che vedere con la modernizzazione della giustizia, ma rappresenti piuttosto una torsione autoritaria. Là dove la separazione delle carriere è realtà, come documentano gli ordinamenti europei, il pubblico ministero è alle dirette dipendenze del Governo e del ministro della Giustizia. È questa la strada che si vuole percorrere: svuotare l'obbligatorietà dell'azione penale, piegare le Procure agli indirizzi dell'esecutivo, trasformare la giustizia da potere autonomo a servizio della maggioranza politica del momento.

Ecco perché le dichiarazioni di Musumeci sono così rivelatrici. Esse non sono una voce fuori dal coro, ma il coro stesso: esprimono con crudezza le vere intenzioni di una maggioranza che considera la magistratura un ostacolo da abbattere e non una garanzia per i cittadini.  In questo quadro, l'unica risposta possibile è una resistenza culturale e civile. Resistenza significa mobilitare il mondo della cultura, dell'associazionismo, della società civile, ma anche costruire un fronte politico ampio, capace di difendere la Costituzione nei suoi principi fondamentali. Resistenza significa riportare al centro dell'agenda pubblica l'autonomia e l'indipendenza della magistratura come beni comuni, non come privilegi corporativi.

Non basta indignarsi per le parole di Musumeci. Bisogna comprendere che esse preludono a un passaggio decisivo: con ogni probabilità, nella prossima primavera saremo chiamati a un referendum confermativo sulla legge di separazione delle carriere. Quel giorno non sarà solo la magistratura a essere in discussione, ma l'intero equilibrio costituzionale. È per questo che, oggi più che mai, serve un impegno collettivo, diffuso, consapevole. Un impegno che parta dalla difesa della Costituzione, che si opponga alla propaganda e agli insulti, che affermi con forza che i "killer" non sono i magistrati, ma le mafie e i criminali che la giustizia italiana – insieme alle forze dell'ordine – ha sempre combattuto, spesso a costo di vite spezzate.

Il tempo che ci separa dal referendum non è molto. È il tempo di costruire una campagna di verità, di conoscenza e di partecipazione. Le parole di Musumeci, così gravi e inaccettabili, ci ricordano che la partita è già iniziata. E che la Costituzione ha bisogno, ancora una volta, della nostra voce.

 

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