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Quando arrivo a casa trovo già apparecchiato. Ottavio non mi ha sentito per tutto il giorno eppure ha adempiuto il proprio dovere serale alla perfezione. Vado in bagno. Faccio una doccia lunga, lunghissima. Cerco di lavarE via tutte le tensioni della giornata. Mi siedo sul sedile di pietra dentro il box. Quando l'hanno installato, mi hanno chiesto se per caso fossi soggetto a dei mancamenti ogiramenti di testa.
L'ho fatto montare perché so come sono certe sere. Antiche, come diceva Norman Mailer. Si ripetono nella loro eterna pesantezza. Hai soltanto voglia di sederti sotto un getto d'acqua che ti polverizzi le idee e ti faccia dimenticare la vita, tutto. Sto sotto il getto d'acqua per dieci minuti. Non penso. Mi asciugo poi con il phon. Sono uno di quelli che porta i capelli lunghi, come una volta. Ho sempre rifiutato di farmi il codino. A 45 anni sono già un residuato bellico anche senza annodarmi i capelli come si faceva negli anni '70.
Mi siedo a tavola e spazzolo con meticolosità tutte le portate ammannitemi dal mio tutore alimentare. Bevo un Muller – Thurgau dal sapore vischioso. Sto per andarmene sul terrazzo a guardare le stelle e le scie degli aerei quando suona il cellulare.
Guardo il display. Sconosciuto. Non ho voglia di rotture a quest'ora. Rispondo per istinto penalistico. Schiaccio il tasto pensando che, se non lo facessi, potrei lasciare qualche anima in mezzo ai marosi.
- Sono Giannini avvocato, la disturbo ?
- Signora…
- Ho dovuto picchiare mio marito, ma stavolta non gli ho lasciato i segni, come le altre volte.
- Signora, lei la deve smettere e…
- Me lo ha detto anche lui.
E mette giù. Resto con il cellulare in mano che fa tu tu. In cielo la scia di un aereo riga la sera. Sui miei occhi scende la saracinesca del sonno.
Traditora.
Dormo come non facevo da giorni. Sodo, stile pietra da muro. Senza un'interruzione durante la notte. Quando sono sotto pressione mi sveglio verso le tre e perdo magari anche un'ora a girarmi nel letto. Questa volta è stato un viaggio di sola andata. Senza fermate. Sarà perché ogni tanto anche a me – insonne di professione – capita di comprare un biglietto per i sogni da bambino. Nonostante tutto. Vedo questa mattina il mio problema giudiziario in tutta la sua semplicità. Non mi pento di quello che ho fatto. Sarà stato un errore deontologico, sarà stato un reato, ma non avrei lasciato Nissim da solo. Non ho verbalizzato alcune dichiarazioni di un teste. Non ho verbalizzato la circostanza in cui costui sostiene di averlo visto rubare il prosciutto. Per fame. Non voglio giustificazioni. Non l'ho verbalizzato e basta. Credo sia stato sentito dalla Polizia Giudiziaria il teste da me ascoltato prima in sede di indagini difensive. Altrimenti non mi spiegherei come abbiano potuto risalire al fatto. Alla faccia del fatto che non si possano formulare domande a chi è già stato sentito da una delle parti del processo.
L'unica cosa che brucia come il fuoco è non potermi più sentire un professionista credibile. Ho sempre detto e cercato di applicare due principi nel mio mestiere. Uno è l'onestà. Sembra poco, ma non lo è. Se un avvocato prende anche 50 centesimi in più di quanto gli spetti dei denari affidatigli da un cliente, non è più un avvocato. E' un morto ambulante.
L'altro è la parola. Se ne dai una, quella deve essere, anche quando scrivi. I giudici e le persone sapranno sempre quanto valga la tua, ma soprattutto saranno portati a fidarsr di quella che hai dato o scritto.Se divento fallace, o menzognero, sarò ancora un avvocato credibile ? Quando sono allo specchio, potrò farmi la barba senza il problema di guardarmi negli occhi ?
Secondo Agata il problema non c'è. Semplicemente, non esiste. Lei la fa facile oppure vede le cose da un lato che mi resta ignoto. E' una questione di angoli, come ho letto del tennis. Vince chi ha più angoli, o ne trova di più in una partita. E' una definizione coniata da Gianni Clerici, lo scriba del tennis che a 80 anni suonati continua a scrivere su Repubblica di Roland Garros e Federer.
Questo problema mi è piombato addosso insieme alla Salmaso, l'altro corno del dilemma. Non devo più starmela a menare. Devo buttare sulla carta i motivi del riesame. Quando finisco di elaborare i miei pensieri dentro un cervello appena risvegliatosi in un letto che per la prima volta da una settimana è un giaciglio più accogliente della tana di chiodi in cui mi avvoltolo di solito, squilla il telefono.E' un numero sconosciuto. Non rispondo. Se è la Giannini, se la va a prendere in culo, alle sette del mattino. A quest'ora, più che grane non possono essere.
Lascio perdere. Emette dieci squilli imperiosi, l'animale munito di suoneria, e poi tace. Metto su il caffè. La prima iniezione quotidiana. Apro la porta e raccolgo il giornale. Sono ancora uno di quelli abbonati al servizio La Stampa in, una specie di pezzo d'antan tipo Nonna Speranza. In un mondo fatto di tablet, non ho abbandonato il piacere antico della carta croccante d'inchiostro al mattino. Ingollo una caffettiera bollente di caffè arabico. Nero come il mio destino. Senza scottarmi. Il mio esofago, col tempo, è diventato amianto.
E' tutto il resto ad essere rimasto come carta velina.
Sottilissimo.
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