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“Giovani studenti lavoro”

rizzo

 Qualche decennio fa, durante il periodo pasquale, una notizia ci aveva colti di sorpresa mentre a Palermo accompagnavamo alcune persone amiche svizzere alla scoperta dei resti di antiche civiltà: "Il 14 per cento dei giovani sarebbe disposto a rivolgersi ad un boss mafioso per un posto di lavoro".

Una notizia sicuramente preoccupante scaturita da una indagine condotta su un campione di studenti delle scuole del medio superiore dei comuni delle Madonie e che si avvicinavano agli esami di maturità.

I dati, apparsi su un periodico della Diocesi di Cefalù, splendida cittadina normanna, confine tra la Sicilia Orientale e quella Occidentale, erano stati forniti da 163 studenti che avevano risposto ad un questionario, inviato dalla Diocesi, su "Giovani, studenti e lavoro".

La metà dei giovani alla domanda se fosse pronto ad affrontare il mondo del lavoro ha risposto <<No>> addossando la responsabilità di questa impreparazione alla Scuola, il 44%; alla Società, il 23%; alla Famiglia, il 7%; ad Altro il 23%. Mentre per la mancanza di lavoro in Sicilia le responsabilità sono state distribuite equamente tra il Governo, 24%; tra i Politici siciliani, 24 %; tra gli Amministratori comunali, 25%, e il restante 25% non aveva idee chiare.

Alla domanda "Per lavorare occorre": il 26% degli intervistati risponde "Rinunciare ai sogni"; il 34% "Cercare una raccomandazione"; il 20% "Aspettare diversi anni"; il 14% "Rivolgersi ad un boss" ed il 6% non ha saputo dare una risposta.

Al di là del numero esiguo del campione i risultati di questa indagine non potevano non indurci a qualche riflessione dal momento in cui i giovani (e non solo quelli delle Madonne) manifestano un grandissimo disagio davanti alle prospettive del loro futuro.

Questi giovani, frutto di una scuola che del nozionismo ha fatto scelta di vita, non sanno come affrontare il futuro perché nessuno si è preoccupato di fornire loro degli elementi che gli permettessero di delineare percorsi certi e positivi. Ma la società, la scuola, la famiglia, queste agenzie interessate all'educazione e alla formazione dei giovani, che conoscenza hanno delle loro aspettative, dei loro desideri?

Quali sono i linguaggi attraverso i quali comunicano gli insegnanti e i giovani studenti italiani?

I silenzi (meglio dire forse le paure) dei genitori sui problemi dei figli vengono compensati con il regalino alla moda: il telefonino, il motorino, l'automobile…!

Mentre la maggior parte degli insegnanti non ha tempo per occuparsi degli aspetti educativi dello studente perché non vuole "scadere" al ruolo di assistente sociale. Quanti insegnanti abbiamo visto nascondersi dietro quest'alibi!

Sul linguaggio dei politici ci viene incontro un giudizio di Luigi Einaudi, il secondo Presidente della Repubblica, dopo Enrico de Nicola, e grande economista: "La maggior parte delle parole comunemente adoperate [dai politici] sono sovratutto notabili per la mancanza di contenuto", da "Prediche inutili". 

 E abbiamo visto i risultati delle varie riforme della scuola negli ultimi vent'anni.

Quella della signora Moratti, quella delle "tre I", per intenderci, una scuola in funzione del "bisogno formativo" dell'azienda. Un "bisogno" variabile a seconda le esigenze contingenti del mercato senza quelle finalità educative, e anche formative, che vadano al di là della congiuntura, nella formazione dell'uomo futuro o, se si vuole, del futuro cittadino.

Fino alla "Buona scuola" di renziana memoria.

Ma la nostra preoccupazione, per questa scuola dell'istruzione con l'educazione ridotta ad "optional", ha trovato esca anche nei risultati di un'altra inchiesta condotta, sempre nelle scuole superiori del bacino di utenza palermitano, dall'Ambulatorio provinciale antiusura, diretto dal gesuita padre Ennio Pintacuda (1933 – 2005) e presentati in un forum "Usura e racket", più o meno nello stesso periodo.

Se da una parte il 70 % dei ragazzi intervistati(300) non ha dubbi nel riconoscere che l'usura sia gestita dalla criminalità organizzata. Dall'altra il 50 % per cento non esiterebbe un istante a rivolgersi ad uno strozzino in caso di bisogno.

Quindi funziona l'istruzione, intesa come riconoscimento del problema; funziona meno l'aspetto educativo se metà dei giovani intervistati non esisterebbe un istante a mettersi nelle mani di uno usuraio.

Bisogna anche dire che in questi anni alcuni Anniversari, pensiamo al 25° delle "Stragi del 1992", dove persero la vita i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, con le rispettive scorte, hanno visto, soprattutto i giovani protagonisti di un sentimento di anti-mafiosità, genuina a fronte dell'anti mafia di "facciata" di tanti professionisti adulti che non hanno esitato un istante, grazie anche allo storico "doppio giochismo", a passare dalla parte avversa.

 Che fare? E' da parecchi anni che questa domanda se la pongono in molti, a dire il vero anche se i risultati non sembrano eclatanti.

Esistono osservatori sulla legalità, attivo ed interessante quello Meridionale; si organizzano seminari di formazione sulla scuola, sul territorio, sui processi educativi e sulla prevenzione. Ma è chiaro che non sempre si riesce a quantificare l'incidenza nella pratica quotidiana degli sforzi compiuti a livello teorico.

Ricordiamo che in un convegno organizzato dall'Osservatorio Meridionale sul "Disagio giovanile", il prof. Giancarlo Milanesi, occupandosi della prevenzione, così chiudeva il suo intervento: "Prevenire diventa effettivamente una presenza efficace se ha alle spalle un'educazione in senso forte, non un generico socializzare, non un generico formare, ma il fare queste cose sostanziandole di una forte concezione educativa.

L'educazione è efficace come prevenzione solo se entra in un quadro sistematico: non bastano la scuola, la famiglia, i movimenti o le associazioni da sole. Cominciamo a stabilire i rapporti fra queste realtà maturando progressivamente le forme di educazione comuni. Bisogna far politica, bisogna far cultura per creare questi progetti sistemici: non occorre fare grandi progetti, ma lavorare costantemente nel concreto".

Ed è questo, quasi, un imperativo categorico che troviamo alla base di un'esperienza, più o meno di quell'epoca, riportata in un bellissimo libro, Piero Greco "La mafia sconfitta dai ragazzini", Prova d'Autore, Catania.

L'autore. Piero Greco, studioso di problemi sociali pedagogici e scolastici, uomo di scuola, che ha lavorato per parecchi anni in un territorio dove la mafia si respira fin dai primi anni di vita ha una bibliografia di tutto rispetto con testi pubblicati da Palumbo a Palermo, da Prova d'Autore a Catania, da Pironti a Napoli e da Armando Armando a Roma. Numerose le sue ricerche sul ruolo e le strategie in relazione al fenomeno mafioso e sulle "precondizioni di un'adeguata risposta scolastica alle istanze della civiltà tecnologica moderna".

Il libro. Le vicende di questo romanzo si svolgono a Cinisi, comune a forte densità mafiosa alle porte di Palermo, regno della famiglia Badalamenti. Ma anche, comunità dove è nato, cresciuto e trovato la sua tragica fine al giovane giornalista Peppino Impastato, in seguito evocato in un bellissimo film, "I cento passi". Moltissimi gli eventi, che hanno contraddistinto la lotta alle cosche mafiose negli ultimi decenni in Sicilia, trovano spazio e collocazione in questo libro, così come fatti ed episodi realmente accaduti.

Una scuola che pensa, imposta, approva e realizza un progetto di educazione alla legalità, non poteva non essere oggetto di intimidazioni mafiose di vario genere.

Ma di questo libro ci occuperemo in un altro momento.

 

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