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L'uso di espressioni sconvenienti o offensive nei confronti di colleghi, magistrati ed ausiliari è espressamente sanzionato dal codice deontologico forense che prevede, per tale illecito, l'applicazione della censura.
Come affermato dal CNF in una decisione del 2017, benché l'avvocato possa e debba utilizzare fermezza e toni accesi nel sostenere la difesa della parte assistita o nel criticare e contrastare le decisioni impugnate, tale potere/dovere trova un limite nei doveri di probità e lealtà i quali non gli consentono di trascendere in comportamenti non improntati a correttezza e prudenza, se non anche offensivi, che ledono la dignità della professione, giacché la libertà che viene riconosciuta alla difesa della parte non può mai tradursi in una licenza ad utilizzare forme espressive sconvenienti e offensive nella dialettica processuale, con le altre parti e il giudice, ma deve invece rispettare i vincoli imposti dai doveri di correttezza e decoro.
I limiti imposti alle esternazioni verbali (che si estende anche agli scritti difensivi) muovono dunque dalla necessità di salvaguardare il decoro nella dialettica processuale e mirano ad impedire che la diatriba trascenda sul piano personale e soggettivo.
Nonostante la previsione di precisi limiti alle esternazioni, sia verbali che scritte, accade però sempre più spesso nella pratica che le espressioni, per la loro crudezza, assumano una valenza delittuosa.
In una sentenza pubblicata il 23 febbraio scorso (n. 8140/2023), la Cassazione ha affermato che descrivere la condotta di un consulente come "connotata da poca etica professionale, dall'assenza di precise conoscenze tecniche, nonché tesa a nascondere quanto accertato" integra gli estremi del reato di diffamazione, essendo tali espressioni idonee ad offendere la reputazione dello stesso consulente.
In tale sentenza, gli ermellini hanno ribadito l'orientamento già in precedenza espresso in tema valutazione del requisito della continenza, necessario per il legittimo esercizio del diritto di critica: si deve tenere conto del complessivo contesto dialettico in cui si realizza la condotta, occorrendo pertanto verificare se i toni utilizzati dall'agente, pur se aspri, forti e sferzanti, non siano meramente gratuiti, ma siano, al contrario, pertinenti al tema in discussione e proporzionati al fatto narrato e al concetto da esprimere.
Nel caso di specie, inoltre, i giudici di legittimità, hanno escluso la ricorrenza della causa di non punibilità di cui all'art. 131 bis c.p., e ciò in ragione della concreta valenza delittuosa delle espressioni utilizzate, della natura dell'offesa arrecata ad un professionista nel legittimo esercizio del suo incarico tecnico, dell'insidiosità e della diffusività del pericolo correlato alla condotta stessa, ricollegabile alla particolare natura pubblica del mezzo utilizzato.
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Paola Mastrantonio, avvocato; amante della libertà, della musica e dei libri. Pensiero autonomo è la mia parola d'ordine, indipendenza la sintesi del mio stile di vita. Laureata in giurisprudenza nel 1997, ho inizialmente intrapreso la strada dell'insegnamento, finché, nel 2003 ho deciso di iscrivermi all'albo degli avvocati. Mi occupo prevalentemente di diritto penale. Mi sono cimentata in numerose note a sentenza, pubblicate su riviste professionali e specializzate. In una sua poesia Neruda ha scritto che muore lentamente chi non rischia la certezza per l'incertezza per inseguire un sogno. Io sono pienamente d'accordo con lui.