Se questo sito ti piace, puoi dircelo così
Più ancora della vicenda Almasri, a far tremare le fondamenta della Repubblica è la strategia comunicativa della presidente del Consiglio che ha cominciato a manifestarsi nella tarda serata di ieri. Di fronte alla decisione del Tribunale dei ministri – che ha disposto l'archiviazione per Giorgia Meloni e chiesto il rinvio a giudizio per tre figure chiave del suo governo – la reazione della premier non è stata improntata al rispetto, alla riflessione, al senso delle istituzioni. Ma alla sfida, all'esasperazione polemica. Ad un populismo per nulla coerente con il ruolo istituzionale.
Meloni ha scritto nel suo post, in quella che, impropriamente, potrebbe dirsi una "chiamata in correità", di aver condiviso ogni scelta con i ministri, rivendicando la paternità politica della decisione che ha portato alla liberazione e al rimpatrio di un torturatore condannato per crimini internazionali. E lo ha fatto per dimostrare che, se vanno processati Piantedosi, Nordio e Mantovano, allora deve esserlo anche lei. E poiché lei è stata archiviata, allora non avrebbero dovuto esserlo nemmeno loro. Una logica politicista e brutale al tempo stesso, che non ha nulla a che fare con la giustizia penale, col ruolo della magistratura, con il principio di legalità.
La presidente del Consiglio, si potrebbe evidenziare d'impatto, sembra dimenticare che i giudici del Tribunale dei Ministri non sono il suo staff di comunicazione. Sono servitori dello Stato che hanno letto gli atti, valutato i fatti, distinto le responsabilità. E in assenza di elementi gravi, precisi e concordanti circa un ruolo attivo della presidente nella formazione della decisione, ne hanno probabilmente per questo disposto l'archiviazione. Per gli altri, invece, gli elementi ci sono. Ed infine, questo Collegio di giudici anonimi, lontani dalla ribalta pubblica, ha chiesto, secundum Constitutionem, che sia un giudice terzo e indipendente, in contraddittorio con le parti, a valutare le condotte dei tre in un processo. Così funziona lo Stato di diritto, e Meloni lo sa bene.
Ma se così è, non essendo possibile pensare che la sortita della presidente del Consiglio sia addebitabile a scarsa conoscenza dei principi dell'ordinamento o ad una reazione istintiva, allora essa deve essere riqualificata per ciò che è stata: un attacco politico alla magistratura, l'ennesimo. Uno stillicidio che va avanti da mesi, che ha colpito i giudici costituzionali, i giudici della Cassazione, le toghe che fanno il proprio dovere, perfino la Corte di Giustizia, come scrivevo ieri in un fondo su Reti di Giustizia. In un clima sempre più torbido, in cui ogni atto di giustizia è visto come un'offesa al governo, o ancor più surrettiziamente, un'azione della magistratura militante per mettere in discussione il disegno sulla separazione delle carriere del Ministro Nordio, del quale nel mio ultimo libro "Divide et impera. La separazione delle carriere e i rischi di eterogenesi dei fini" ho provato a dimostrare l'inconsistenza e perfino l'incostituzionalità di non poche disposizioni. E qualcosa di più.
Qualcosa di più, perchè ora la palla passa al Parlamento, dato che per processare i ministri serve l'autorizzazione a procedere. Ed è qui che il cerchio si chiude, e l'intervento improprio della presidente del Consiglio prefigura, probabilmente, il rigetto della richiesta del Tribunale da parte della maggioranza. Sarebbe un colpo durissimo alla legalità costituzionale. Il parlamento può infatti negare l'autorizzazione solo in casi limite, qui non ricorrenti. Non può trasformarsi in tribunale, travalicare il suo ruolo. Se non dando la prova conclamata che chi è al potere si sente sopra la legge. Che esistono zone franche di impunità per chi governa, e che la Costituzione può essere messa da parte.
Il caso Almasri è di una gravità senza limiti. Un uomo ricercato dalla Corte penale internazionale per torture, stupri, violenze indicibili, è stato liberato e riaccompagnato in patria con un aereo di Stato. È una vicenda che macchia l'onore dell'Italia, che offende le vittime, che calpesta i principi di umanità e giustizia su cui si fondano le convenzioni internazionali. E 1ualsiasi sia la decisione in Aula della maggioranza, nulla potrà cancellare questa vergogna. La premier potrà sedersi accanto ai suoi ministri in aula, ma dall'altra parte, In piedi, ci sarà il popolo italiano, buona parte del quale comprenderà, in quel momento, che difendere la giustizia e la funzione giurisdizionale significherà difendere la dignità stessa della Repubblica dalla retorica dell'onnipotenza, dal cinismo di chi continua a ridurre il diritto a ostacolo politico. Ed affermare che nessuno è al di sopra della legge, neppure se i tratta dei vertici dello Stato.
Il potere esecutivo ha il dovere di rispettare i confini imposti dalla Carta. E ogni cittadino – giurista, studente, magistrato, avvocato, insegnante – deve sentire su di sé il dovere morale e civile di difendere, oggi più che mai, la Costituzione antifascista, il principio di legalità, l'autonomia e l'indipendenza della magistratura. In gioco non c'è solo il destino di tre ministri, ma la tenuta democratica del Paese.
Tutti gli articoli pubblicati in questo portale possono essere riprodotti, in tutto o in parte, solo a condizione che sia indicata la fonte e sia, in ogni caso, riprodotto il link dell'articolo.