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Aldo Casalinuovo, dai campi di concentramento al Governo, un avvocato con il pallino della scrittura

Aldo Casalinuovo, dai campi di concentramento al Governo, un avvocato con il pallino della scrittura

Aldo Casalinovo è nato a Catanzaro nel 1915 ed è deceduto nel 2000. E' stato avvocato, parlamentare della Camera dei Deputati nella I e III Legislatura. E' stato libero docente di diritto penale nell'Università di Roma, Presidente del Consiglio Nazionale Forense, autore di diverse opere giuridiche.

Da "Frammenti di vita arringhe discorsi e celebrazioni di grandi giuristi scomparsi" scritta dall'autore nel 1976 pubblichiamo il brano che segue:

E lì, alle pendici del Sant'Elia, non lontano dal murmure dolce del Tirreno, che a Francesco Cilea aveva donato la squisita delicatezza del sentire e dal quale Leonida Répaci aveva tratto la forza edificante della narrativa, egli aveva sognato di poter trascorrere gli anni sereni, del declino dell`età più grave, circondato, in letizia, dai figli e dai figli dei figli, traducendo ed applicando le considerazioni di Corrado Alvaro, per cui la forza della Calabria è nella struttura familiare, la famiglia essendone la spinta vitale, il canto del genio, il dramma e la poesia; in una concezione nella quale i figli rappresentano un continuo atto di fede nella vita, una promessa ed una speranza, una forza che vale anche correggere il destino individuale dei padri.Ne avrebbe avuto il diritto, per quella finissima sensibilità della quale egli stesso si compiaceva, quando, proprio esaltando l'armonia della vita di Francesco Cilea in una relazione al Rotary Club di Reggio, affermava: "Non sarò certo io a fare un'analisi critica delle creazioni musicali del Maestro, io che di musica non mi intendo, e che soltanto ho un'anima che nella musica trova la consolazione e la beatitudine che scienza e filosofia ci negano".  Ma non gli fu consentito. 

Tuttavia, una vita cosi intensa ebbe il dono di una morte, che a pochi è riservata, riconoscimento e premio di un Ideale Supremo. Bruno Cassinelli, nella prefazione al recente volume di Sandro Diambrini-Palazzi, "Vita difficile di grandi oratori", ricorda come, nel corso dei secoli, l'oratore pagò spesso, per l'altrui  ferocia, la parola con la vita, divenendo martire. Il nostro indimenticabile amico fu invece martire volontario della sua parola e della sua passione.                             

È generale opinione che avrebbe ancora resistito agli attacchi incalzanti del male se avesse voluto vincere l'impulso della vocazione e sottrarsi definitivamente ai triboli dell'esercizio professionale. Poiché, però, alla morte dello spirito egli preferì l'incessante logorio, segnata l'ora fatale dal volere di Dio, la sua giornata terrena si concluse in bellezza, Dio avendo appunto voluto che ancora egli di più assurgesse, nella metamorfosi di un atto tremendo e sublime, a simbolo della nostra dedizione, del nostro sacrificio, delle nostre angosce, del diuturno nostro logorio sentimentale e materiale, incarnazione della Toga, espressione fulgida della nostra missione.

 Avvenne il 5 marzo, poco dopo le ore 10,30, nell'aula della Corte di Assise di Appello di Catanzaro. Si trattava di un processo a carico di Bartolo Scarfò, sorto da una terrificante vicenda, che imponeva la disamina di notevoli aspetti indiziari per la ricostruzione delle modalità dell'episodio, nel quale, assumendo di essersi eretto a vindice dell'onore familiare, lo Scarfò aveva soppresso la sorella ed un cognato, marito di altra sorella. La discussione aveva già avuto inizio il giorno precedente: quella mattina, egli avrebbe dovuto prendere per primo la parola.                                                                                                                               La Corte di primo grado aveva definito il duplice delitto commesso dallo Scarfò come "omicidio continuato a causa d'onore", ai sensi degli articoli 81 e 587 del codice penale; ed il tema fondamentale della discussione, in appello, verteva appunto sulla definizione giuridica del delitto, in quanto, con la impugnazione del Pubblico Ministero, decisamente appoggiata dai difensori delle parti civili, si chiedeva l'affermazione dell'omicidio volontario, ai sensi degli articolo 575 e 577 del codice penale, in luogo della minore ipotesi affermata dai primi giudici ed in definitiva convalidata dalla stessa Corte di Assise di Appello.

Giunse puntualmente: ma l'inizio dell`udienza ritardo mezz'ora circa sul consueto. Come al solito, nell'attesa, fu con tutti sorridente e cordiale. Si disse, poi, che qualcuno avesse notato sul suo volto sintomi di malessere: a me non parve, e gli fui da presso, con Alfredo Cantafora, Arcangelo Badolati e Federico Albanese, fino al supremo istante. Poiché l'episodio del processo si era svolto in un canneto, dove l'imputato assumeva di aver sorpreso i due amanti nella flagranza del peccato, egli aveva, nel giudizio di primo grado, portato in udienza il romanzo di Luciana d'Arad, "Gli insaziati", nel quale era descritta una vicenda elettrizzante di frenetico amore, svoltasi appunto in un canneto, e ne aveva letto dei brani. Lo aveva poi passato a me e glielo avevo appena restituito: e, nell'attesa, si parlava del libro, così, per gioco, e delle tendenze di cena moderna letteratura.

Aperta l'udienza, iniziò la sua arringa. Già aveva dedicato alla causa, in primo grado, nelle alterne vicende del processo, tutto sé stesso. La sua tesi era stata accolta e la sentenza aveva registrato una sua clamorosa vittoria. Entro subito sul tema del dilemma: articolo 575 ovvero articolo 587? Dall'esterno giungeva noioso, assordante, il rumore di una perforatrice meccanica: il presidente lo pregò di sostare un attimo e diede istruzioni ad un usciere perché si recasse dagli operai e li invitasse a sospendere il lavoro. Egli riprese il suo discorso.

Dopo pochi minuti, una nuova pausa. Lo avevo seguito, anche con lo sguardo, fino a pochi momenti prima.Stavo allora annotando, sulla carta, qualche idea, che mi sarebbe servita per l'arringa, che avrei dovuto pronunziare, quale ultimo difensore di parte civile, subito dopo la sua. Pensai ad una comune pausa del discorso: una di quelle pause di attimi, che caratterizzano, sovente, nelle esigenze della dimostrazione, l'oratoria forense.Ma un grido di Cantafora, seduto in mezzo, fra me e lui, che lo chiamò per nome, mi fece sussultare. E tutto era finito!

Non più un barlume di luce nei vividi occhi lucenti; non più un palpito dolce nel petto; non più una parola cara: nulla!Dalla vita alla morte, senza soluzione, indossando la Toga, il processo stretto in una mano, portata al cuore. Eppure, da quel momento, la più vivida luce, i più ardenti palpiti, le parole più dolci parvero irradiarsi e partire dal corpo inerte, disteso e composto sul banco del nostro diutumo lavoro!Può dirsi davvero che la Morte abbia voluto premiare la vita.Tornano alla mente i versi nostalgici di Giovanni Pascoli, che piange l'antico compagno di scuola, ma piangendo esulta:

"Oh! Te felice che chiudesti gli occhi. Persuaso, stringendoti sul cuore Il più caro dei tuoi cari balocchi!". Non è dubbio, comunque, che se all'uomo fosse consentito scegliere le modalità della morte, il nostro compianto amico avrebbe scelto quelle che nella realtà per lui si realizzarono!

Non per nulla Egli aveva affermato: " Un giorno, l'avvocato muore - (ricordate? or sono circa tre anni - sono le sue parole – Amerigo Crispo si abbatte nell'aula della Corte di Assise di Napoli mentre più affascinante era la sua parola; e non fu il primo ad abbattersi con la Toga sulla spalle!) ed il medico, chiamato, fa la diagnosi di arteriosclerosi, di congestione cerebrale, ma, se ricordo bene, fu Orazio Raimondi ad osservare che l'avvocato penalista logora giorno per giorno le fibre del suo cuore, muore oncia ad oncia, lasciando in ogni causa qualche cosa di sé"! Vita e Morte decretarono, per lui, che nel momento stesso del trapasso avesse inizio la sua apoteosi!Il processo venne rinviato a nuovo decreto. Il presidente diede ordine ai carabinieri di allontanare l`imputato detenuto. Bartolo Scarfò alzò, tremante, un braccio: chiese il permesso di poter baciare, prima di allontanarsi, la mano del suo avvocato, percosso dalla folgore mentre tutte le energie erano concentrate e protese nell'azione difensiva.Con un mesto cenno del capo il permesso venne dato. Bartolo Scarfò, tra i carabinieri, i polsi già stretti nei ferri, copri il breve tratto dalla gabbia al banco. Si curvò: bagnò con le lacrime la cara mano; la baciò devotamente.Quel bacio volle rappresentare - ed espresse - il riconoscimento e la gratitudine di una folla, ormai indistinta, di umane creature, che dall'animo, dalla azione, dalla parola di lui, in decenni, avevano tratto beneficio e sollievo.Quel bacio vuole esprimere - e rappresenta - il riconoscimento devoto della moltitudine, nel flusso perenne dei tempi e degli eventi, verso l'Avvocatura! Così, quando, ricomposta la salma nella biblioteca degli avvocati e procuratori di Catanzaro, nella severità dell'ambiente, fra gli scaffali austeri ed il rigore delle opere dei grandi, ebbe inizio, diffusasi la notizia in città, e si svolse, un pellegrinaggio di amore, al quale parteciparono magistrati, avvocati, professionisti, funzionari, impiegati, operai, cittadini di ogni ceto, l'omaggio non fu soltanto alla memoria di lui: fu omaggio alla nobiltà del lavoro.Onore e gloria dell'Avvocatura d'Italia e di Calabria!

Laureato in giurisprudenza, avvocato penalista fu un Socialista autonomista, e la sua gioventù fu segnata da una drammatica esperienza nei campi di concentramento.

Iscrittosi al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria subito dopo il ritorno dalla prigionia in terra tedesca (1945), aderì alla scissione di Palazzo Barberini (1947), militò dapprima nel PSDI e, nel 1959 confluì con il MUIS (movimento unitario di iniziativa socialista) nel Partito Socialista Italiano che aveva deliberato la sua politica autonomista nel Congresso di Venezia, dopo i fatti di Polonia e Ungheria.

Fu quindi Segretario della federazione di Catanzaro del PSI, componente del Comitato Regionale, del Comitato centrale e dell'Assemblea Nazionale del Partito Socialista Italiano sino allo scioglimento del Partito nel 1994. Dal 1974 al 1979 fece parte della Commissione ministeriale per la riforma del codice di procedura penale presieduta dal prof. Gian Domenico Pisapia.

È stato il primo presidente del consiglio regionale della Calabria, assessore regionale, deputato e presidente di Commissione parlamentare, Sottosegretario di Stato e Ministro. Eletto deputato nelle file del PSI nelle elezioni politiche italiane del 1979 e del 1983 (VIII e IX legislatura), fu il primo deputato socialista catanzarese eletto dal secondo dopoguerra. Ha ricoperto, in ambito nazionale, l'incarico di Sottosegretario al Ministero dei Lavori Pubblici nel I e nel II Governo Spadolini e di Ministro dei trasporti nel quinto governo Fanfani. È stato vice presidente del gruppo parlamentare del PSI fino al 3 luglio 1981 e, fino alla stessa data, ha fatto parte della Commissione Giustizia della Camera dei deputati, partecipando ai più importanti dibattiti sia sui disegni di legge del Governo sia sulle proposte di legge d'iniziativa parlamentare.

È stato impegnato nell'associazionismo forense, ricoprendo, tra l'altro, la carica di vice presidente nazionale dell'Unione delle Camere Penali italiane e quella, per undici anni, di presidente della camera penale della provincia di Catanzaro, che fondò con altri colleghi nel 1988. Giornalista pubblicista, direttore per molti anni di Calabria Giudiziaria fondata nel 1919 dal padre Giuseppe Casalinuovo, è collaboratore di riviste giuridiche, di quotidiani e periodici politici. Ha fatto parte anche della Giunta esecutiva nazionale della FNSI. 

 

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