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"Una sentenza immotivata compromette principio giusto processo". Salvati, "necessario un limite a discrezionalità giudici"

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 Nel corso degli ultimi mesi sono state portate alla luce sentenze che hanno destato un forte clamore mediatico a fronte dell' "abusato" potere decisionale del giudice in violazione dell'obbligo motivazionale. Giova evidenziare che sia nell'ambito del processo penale, che nell'ambito di quello civile il giudice spesso emette sentenze discutibili ed apparentemente incomprensibili violando i doveri costituzionali e lasciando sconcerto, non solo tra gli operatori del diritto, ma anche tra i cittadini.

La sentenza, atto giurisdizionale per eccellenza, deve contenere, oltre al dispositivo, ossia la parte nella quale è contenuta la decisione del giudice, anche la motivazione, nella quale il giudice espone la ricostruzione dei fatti ed il ragionamento logico-giuridico che giustifica il segno della decisione adottata.

L'obbligo di motivazione è previsto all'art. 111 Cost. co. 6, come garanzia dei cittadini nei confronti del potere giudiziario e di buona amministrazione della Giustizia . La costituzionalizzazione di tale obbligo è indice, quindi, del rispetto del diritto di difesa del cittadino, il quale non può trovare tutela a fronte di una sentenza priva di motivazione. Inoltre, il dovere di motivazione è consacrato anche nella Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.

La motivazione di una sentenza deve essere sintetica, ma nello stesso tempo precisa; succinta, ma non per questo stringata. In altre parole, dalla motivazione le parti devono essere in grado di riconoscere, in modo chiaro e in forma breve, le ragioni giuridiche che hanno portato il giudice a decidere in un determinato modo.

La motivazione, dunque, costituisce una delle parti essenziali della sentenza, a garanzia del principio del giusto processo, il quale esige che la causa sia esaminata e decisa correttamente, ragionevolmente e secondo diritto.

La motivazione è quella parte ragionata della sentenza che serve a dimostrare che la sentenza è giusta e perché è giusta . Se ne deduce quindi che una sentenza ingiusta altro non è che un attentato alla legge.

Di conseguenza, come è stato più volte ribadito in giurisprudenza, la motivazione è assente quando l'enunciazione della decisione è priva di argomentazione, oppure quando la motivazione formalmente esiste ma le sue argomentazioni sono svolte in modo da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione della decisione.

La motivazione, in altre parole, deve comprendere la succinta esposizione dei fatti di causa. Tale requisito altro non è che il modello processuale cui ogni sentenza deve ottemperare.

In assenza del summenzionato requisito, la motivazione risulta essere meramente apparente in quanto non consentirebbe di comprendere le ragioni e, di conseguenza, le basi della sua genesi e l'iter logico seguito per pervenire al risultato enunciato.

Atteso che la motivazione costituisce uno dei requisiti essenziali della sentenza, quest'ultima, inoltre, si definisce motivata anche quando richiami in maniera sistematica le ragioni contenute in altro atto o provvedimento esterno, ovvero quando faccia riferimento a precedenti conformi – c.d. motivazione per relationem – ma, ai fini della sua validità, occorre che l'atto richiamato venga indicato in maniera precisa in modo che sia agevolmente rintracciabile e conoscibile. In pratica, i giudici non possono limitarsi alla condivisione di una determinata interpretazione ma devono anche spiegare le norme, i motivi e le ragioni.

La sentenza inoltre si definisce motivata anche quando richiami esplicitamente i precedenti giurisprudenziali. Anche in questo caso, però, vale lo stesso discorso di cui sopra: dalla lettura del rinvio al precedente giurisprudenziale deve essere possibile ricostruire il percorso argomentativo seguito dal giudice.

Da tali considerazioni, ne consegue che il problema reale di una motivazione sorge quando il contenuto dell'atto riportato ai fini motivazionali non sia idoneo a sostenere la decisione ed, in questo caso, la sentenza non può che essere censurabile.

Il rischio di una sentenza immotivata è quello di compromettere il principio del giusto processo e soprattutto, il diritto all'azione e alla difesa . La ragione sta nel fatto che una sentenza che non rispetti i canoni della "giusta motivazione" non è rivolta ad un solo destinatario, ma è un atto pubblico ed, in quanto tale, potrebbe finire per coinvolgere interessi più vasti. In altri termini, su una sentenza, priva di motivazione chiunque potrebbe interloquire nel dibattito culturale potendo, quindi, la sentenza, rappresentare un punto di riferimento per il mutamento della giurisprudenza pratica o addirittura normativa.

La sentenza deve ritenersi assolutamente nulla laddove si limiti alla mera indicazione della fonte di riferimento e non sia, pertanto, possibile individuare le ragioni poste a fondamento del dispositivo.

A tal proposito un noto giudice di Milano, dott.ssa Maccora, ha così dichiarato: «Le sentenze sono lo specchio del nostro lavoro. Per questo devono essere scritte in maniera inappuntabile. Non dimentichiamo che chiarezza, pertinenza e comprensibilità sono indici della qualità della democrazia di un ordinamento» Dunque, il ruolo del giudice è quello di decidere senza inutili formalismi, dovendo indicare le ragioni della decisione e non invece la parte curare la motivazione.

La motivazione sottopone quindi il giudice ad un controllo che elimina o, perlomeno, riduce il rischio di un uso scorretto o irresponsabile o autoritario della giurisdizione.


Dopo aver analizzato i criteri ai quali deve uniformarsi un giudice nel motivare correttamente le sentenze, si vuole evidenziare una recente sentenza emessa dal Tribunale Civile di Viterbo nella quale è ravvisabile una totale assenza di motivazione. Nel predetto giudizio, il giudice di prime cure, disattendendo le conclusioni del C.T.U., ometteva di motivare la sentenza in fatto ed in diritto, senza citare alcuna norma di diritto ed alcuna giurisprudenza. Il caso riguarda un sinistro mortale per il quale era stato chiesto il risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non da parte delle attrici – moglie e figlia – della vittima, investita da un Tir che viaggiava a velocità superiore al limite massimo consentito per quel tratto di strada. In particolare, il giudice, a fronte della domanda proposta dalle attrici, provvedeva al rigetto della stessa con una sintetica sentenza di quattro pagine, omettendo di analizzare le molteplici norme interessate, limitandosi, pertanto, alla sola condivisione di una interpretazione personale priva di sostegno sia normativo che giurisprudenziale, non consentendo di ricostruire in alcun modo l'iter logico-argomentativo seguito dal giudice. Quest'ultimo, in altre parole, si è limitato ad una parziale ricostruzione descrittiva della dinamica del sinistro non comprovata da un effettivo e tangibile riscontro giurisprudenziale come se la Suprema Corte di Cassazione e la Corte di Appello non si fossero mai pronunciate in casi analoghi creando dei precedenti, ignorando, al contrario, la presenza di una ormai consolidata giurisprudenza, in caso di sinistri stradali, della responsabilità esclusiva in capo al conducente o al pedone, o dell'eventuale concorso di responsabilità di entrambi.

Alla luce delle considerazioni fin qui esposte è evidente che, ad oggi, la motivazione della sentenza rappresenti una delle cause della crisi del processo, non solo penale ma anche civile, essendo opportuno porre un limite alla discrezionalità decisionale del giudice, atteso che lo stesso è tenuto non solo a dover motivare le sentenze, ma anche a doverle motivare correttamente nel rispetto del principio del giusto processo e del diritto di azione e di difesa del cittadino.

Avv. Luigi Salvati - Dott.ssa Giulia Rizzo - Foro di Roma

 

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