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Sedici anni, tanto vale la vita di una donna. Una sentenza che ci riporta al Medioevo

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 È polemica sulla sentenza emessa ieri dalla Corte d'Assise d'Appello di Bologna che ha ridotto da 30 a 16 anni di reclusione la pena inflitta al responsabile di un femminicidio che, alcuni anni fa, ha molto scosso l'opinione pubblica. Una donna strangolata da quello che era stato il suo compagno senza neppure una ragione. Uno dei tanti, troppi casi, di una violenza cieca, incontrollata, che quasi sempre vede per protagoniste persone di sesso maschile.

Il mondo del diritto è stato scosso da questa pronuncia, che applica, sostanzialmente, all'omicida una pena poco più lieve di quella che normalmente i giudici applicano per reati poco più che comuni.

Tanto vale la vita di una donna, si sono chiesti in tanti? Siamo proprio sicuri che, nella specie, non ricorrono quelle condizioni la cui esistenza i giudici di primo grado avevano riscontrato, e quelli d'Appello negato?

La decisione della riduzione, hanno spiegato ieri sul Fatto Quotidiano Monica Lanfranco e Nadia Somma, "deriva in primo luogo dalla valutazione positiva della confessione. Inoltre, sebbene la gelosia provata dall'imputato fosse un sentimento "certamente immotivato e inidoneo a inficiare la sua capacità di autodeterminazione", tuttavia essa determinò in lui – "a causa delle sue poco felici esperienze di vita" – quella che il peritopsichiatrico che lo analizzò definì una "soverchiante tempesta emotiva e passionale", che in effetti "si manifestò subito dopo anche col teatrale tentativo di suicidio". Una condizione, questa, "idonea a influire sulla misura della responsabilità penale".

"Ho perso la testa perché lei non voleva più stare con me. Le ho detto che lei doveva essere mia e di nessun altro. L'ho stretta al collo e l'ho strangolata". Le parole dell'omicida nel costituirsi.

"La sentenza segna un arretramento rispetto al lavoro che fanno le reti di donne per il superamento dei pregiudizi", ha commentato Elena Biaggioni, avvocata penalista e coordinatrice del Gruppo tecnico avvocate di D.i.Re, Donne in rete contro la violenza "È ancora necessario fare formazione a contrasto degli stereotipi, perché senza una formazione adeguata per superarli rischiamo ripercussioni anche sul sistema giudiziario".

 Nel dibattito, non mancano le tesi giustificazioniste, fondate su strette considerazioni di diritto, come questa, di Elias Vacca, un avvocato, che ha fatto il giro del web: "Summum ius, summa iniuria. Leggo in ogni dove commenti, perlopiu' fondati sul nulla, sulla sentenza di una Corte d'Appello, che ha ridotto la pena per un assassino della propria compagna da 30 a 16 anni di reclusione. I giornalisti si sono profusi a sottolineare uno stralcio della motivazione nel quale i giudici hanno definito "inarrestabile tempesta emotiva" una crisi di ottusa possessivita' o di gelosia dell'omicida. I lettori hanno quindi capito, ovviamente, che a causa del suindicato stato psicologico l'omicida avrebbe avuto "uno sconto". Purtroppo devo registrare, ancora una volta, che l'applicazione della giustizia è per gli italiani, giornalisti e lettori, un po' come il calcio. Ognuno scrive e (incolpevolmente) capisce quel che vuole. Il fatto è che l'omicida fu giudicato con una imputazione da ergastolo: omicidio sorretto da motivi abietti o futili. A quanto capisco era reo confesso ed incensurato. Il primo giudice lo giudico' con rito abbreviato (i fatti erano pacifici) e gli applico' lo sconto di pena che la legge prevede per quel tipo di processo. Gli inflisse non l'ergastolo, ma 30 anni. I giudici d'appello ritennero (immagino esprimendo anche quella valutazione sullo stato psicologico) che si trattava di un omicidio non aggravato da motivi abietti (uccido durante un rito satanico o per piacere mio), ne' futili (perché mi hai guardato male o mi hai occupato il parcheggio). Si trattava di un omicidio e basta. A quel punto cade l'imputazione da ergastolo e restano le attenuanti di aver confessato spontaneamente e, magari, l'incensuratezza, che incidono su un reato punito dall'articolo 575 c.p. con la reclusione "non inferiore ad anni 21" . Se i giudici sono partiti da 24 e non hanno riconosciuto alcuna attenuante, con la diminuente del rito di 1/3, che l'art. 438 c.p.p. applica al rito abbreviato, si scende ad anni 16. Oppure sono partiti da 30, hanno concesso attenuanti per incensuratezza e confessione, scendendo a 24 e poi come sopra. Le mie sono ipotesi, però fondate su 5 anni di studi giurisprudenza e oltre 30 di aule di giustizia. Non c'è da parte mia nessun possibile giudizio che non sia tecnico. Perché la interpretazione ed applicazione del diritto è fatto tecnico, non emozionale. Io non seguo Masterchef e non recensisco opere d'arte perché di cucina e d'arte capisco tecnicamente niente. Voi proseguite pure se volete a prendervela con i giudici per queste cose. Poi lamentiamoci se lo sceriffo in felpa fa approvare la "sicurezza per decreto" e la legittima difesa per sparare a vista. Fatelo ancora vincere facile ..."

Ed allora? Allora dobbiamo veramente ritenere conforme al diritto - ed al senso di giustizia -  che uccidere una donna possa costare, più o meno, all'omicida, una pena magari lievemente superiore a quella irrogata per spaccio di stupefacenti, ad esempio? Questo si chiedono in molti, anche giuristi, addetti ai lavori. Ed ancora: se anche in linea di ipotesi, a questo esito potrebbe condurre l'applicazione delle norme, non sarebbe il caso di cambiarle, queste norme,  ad esempio stabilito che a particolari reati, come il femminicidio, non possano essere applicati quei riti (come l'abbreviato) che consentono sconti, o che possa e debba essere ridefinito lo stesso impianto dei benefici?

Tutte le ipotesi restano aperte, ma  riteniamo che questa sentenza, disgustosa per l'opinione pubblica, non renda un buon servizio né alla giustizia, né al prestigio della magistratura, nè alle donne, che per di più rischi di alimentare oltre misura circuiti di violenza senza limiti.

Crediamo che questa sentenza, a prescindere dalla volontà e dalle intenzioni di chi l'ha emessa, rischi di rappresentare e di alimentare l'idea di un ritorno all'antico, allo schema medievale di una donna nelle mani dell'uomo, obbligata ad amare, a soddisfare ogni pretesa del suo partner, perché in caso contrario rischierebbe di esporsi ad una violenza a cui, in qualche modo, qualche giudice più "liberale" potrebbe poi riconoscere delle attenuanti, in linea di stretto diritto.

No. Il diritto è (e non può che continuare a essere) espressione del senso di giustizia di una società, ed in questo senso chi giudica ha una grande responsabilità. Guai a disattendere questi principi. Significherebbe infliggere un colpo mortale alla giustizia e al diritto. 

 

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