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Lo jus variandi, quando è possibile e quando no

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 L'articolo 2103 del codice civile disciplina il c.d. jus variandi ossia il potere di modificare le mansioni del lavoratore nel corso del rapporto di lavoro rispetto a quanto concordato all'atto dell'assunzione.

Tale articolo codicistico così come modificato ai sensi dell'articolo 3 d.lgs. n.81 del 2015 ( in attuazione del c.d. jobs act) a seguito di tale modifica ha enormemente ampliato il potere del datore di lavoro che potrà in maniera unilaterale ed in piena autonomia modificare anche in pejus le mansioni del dipendente nell'ipotesi in cui siano in atto cambiamenti organizzativi.

Infatti l'articolo 2103 del codice civile, così come modificato, dopo aver ribadito il principio secondo il quale "il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all'inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte", aggiunge che "in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale".

Così come riformulato l'articolo non esclude più la possibilità che il lavoratore venga "demansionato", consentendo dunque anche una modifica peggiorativa delle sue mansioni che avrà come unico limite sostanziale quello, incombente sul datore di lavoro, di dargli comunicazione per iscritto  in ordine a tale mutamento ( a pena di nullità) nonché la conservazione della retribuzione goduta .

Il datore di lavoro potrà dunque "demansionare" il lavoratore assegnandolo a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purchè rientranti nella medesima categoria legale.

Ulteriori ipotesi di "demansionamento" secondo la detta norma nella versione rivisitata, possono essere previste anche da contratti collettivi o accordi individuali stipulati "nelle sedi di cui all'art. 2113, quarto comma, c.c. o avanti alle commissioni di certificazione", prevedendo per il lavoratore soltanto il diritto di farsi assistere da un rappresentante sindacale, da un avvocato o da un consulente del lavoro.

Si delineano così ben tre tipologie di "demansionamento" ( o mobilità verso il basso): unilaterale, per accordo collettivo ( c.d. patto di declassamento), e consensuale.

Per quello che riguarda la verifica del legittimo esercizio dello jus variandi da parte del datore di lavoro compete al giudice di merito che sarà chiamato a valutare l'omogeneità tra le mansioni di originaria appartenenza e quelle successivamente attribuite sotto il profilo della loro equivalenza effettiva in relazione alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla concreta utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal lavoratore.

L'equivalenza alle "ultime mansioni effettivamente svolte" costituisce dunque un parametro di riferimento utile al fine di valutare quali siano stati i compiti precedentemente adempiuti dal lavoratore in maniera stabile, così da permettere un confronto con le variazioni volute dal datore di lavoro, non costituendo tuttavia le stesse titolo di inamovibilità di settore ove le nuove mansioni siano comunque coerenti al bagaglio professionale già acquisito dal lavoratore e dunque in sintonia col proprio patrimonio professionale.

 Per quello che riguarda  la liquidazione equitativa del danno da "demansionamento" il giudice deve tener conto dell'insieme dei pregiudizi sofferti dal lavoratore compresi quelli esistenziali, purchè sia provata nel giudizio l'autonomia e la distinzione degli stessi.

Il giudice deve cioè provvedere all'integrale riparazione secondo un criterio di personalizzazione del danno che, escluso ogni meccanismo semplificato di liquidazione di tipo automatico, tenga conto, pur nell'ambito di criteri predeterminati delle condizioni personali e soggettive del lavoratore e della gravità della lesione e, quindi , delle particolarità del caso concreto e della reale entità del danno. 

Quanto fin ora rappresentato riguarda lo ius variandi in pejus ( c.d.mobilità orizzontale),  ma la variazione può avvenire anche in maniera migliorativa (c.d. mobilità verticale) quando il lavoratore viene adibito a mansioni superiori con diritto al trattamento retributivo (maggiore) corrispondente all'attività svolta.

In tal caso l'assegnazione diviene definitiva trascorso il periodo di tempo fissato da contratti collettivi o in mancanza dopo 6 mesi continuativi, a meno che tale variazione non sia stata disposta per la sostituzione di un collega.

In quest'ultima ipotesi va evidenziato che per la configurabilità della frequenza e sistematicità di reiterate assegnazioni di un lavoratore allo svolgimento di mansioni superiori, il cui cumulo sia utile per l'acquisizione al diritto alla promozione automatica ex articolo 2103 c.c., non è sic et simpliciter sufficiente la mera ripetizione delle assegnazioni, essendo piuttosto necessaria una programmazione iniziale della molteplicità degli incarichi ed una predeterminazione utilitaristica di siffatto comportamento ( elementi entrambe deducibili e provabili anche mediante circostanze di fatto).

Va infine evidenziato, per completezza espositiva che l'art. 3 del decreto attuativo del Jobs Act legittima anche il trasferimento del lavoratore da un'unità produttiva all'altra, in caso di "comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive".

In questo caso il controllo delle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive non può comunque spingersi fino ad una valutazione di merito in ordine alla scelta effettuata dall'imprenditore, non dovendo il trasferimento presentarsi come assolutamente inevitabile essendo sufficiente che lo stesso palesi una scelta ragionevole.


 

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