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FdI ordina: "Scarpinato e De Raho fuori dall'Antimafia". Un conflitto di interessi al contrario

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Con l'approvazione al Senato del disegno di legge che introduce l'incompatibilità per i magistrati già in servizio con la partecipazione alla Commissione parlamentare antimafia, il Parlamento ha imboccato una strada pericolosa, piegando il concetto di "conflitto di interessi" a una logica incomprensibile, giuridicamente tortuosa e ad personam. Il provvedimento si presenta, nei fatti, come un meccanismo di esclusione mirato nei confronti di due figure precise: Roberto Scarpinato e Federico Cafiero De Raho, oggi senatore e deputato della Repubblica, ieri tra i più autorevoli protagonisti della lotta dello Stato contro le organizzazioni mafiose.

Dietro l'alibi dell'inopportunità, si consuma un vulnus profondo alla funzione parlamentare e alla composizione dell'organo. Si tratta, infatti, di una disposizione che interviene a posteriori su una scelta politica già compiuta, quella della nomina dei due senatori nella Commissione antimafia, introducendo un divieto generalizzato e immediatamente operativo. È una norma che colpisce non una categoria astratta ma due nomi precisi, alterando le regole del gioco a partita in corso, in aperto contrasto con i principi di irretroattività e personalità della responsabilità politica.

Si escluderanno dalla Commissione coloro che ne incarnano l'identità storica, culturale e costituzionale. Per la prima volta, a essere considerata incompatibile con il mandato parlamentare non è la contiguità con interessi mafiosi, ma la conoscenza profonda del fenomeno mafioso. Il conflitto di interessi viene letto al contrario: non consiste più nell'intreccio tra funzione pubblica e interessi privati, ma nel possesso di competenza e consapevolezza. 

Ma il Parlamento non è un tribunale, né un ordine professionale: è un'assemblea politica nella quale le diversità di storia e di cultura pensiero arricchiscono – o dovrebbero arricchire – il dibattito pubblico. Scarpinato e De Raho sono stati eletti in quanto simboli di legalità, nonostante – anzi proprio in virtù – del loro passato di magistrati. Cancellarli significa cancellare la voce di quella parte del Paese che in loro ha riconosciuto un punto di riferimento, una coscienza civile, una garanzia etica.

È lecito domandarsi se tale disposizione sia compatibile con l'articolo 3 della Costituzione, che impone di trattare situazioni analoghe in modo uguale, e con l'art. 67 che tutela il libero esercizio del mandato parlamentare. Ma oltre al piano della legittimità costituzionale, c'è un terreno ancora più insidioso: quello della finalizzazione politica della legge. Perché non siamo dinanzi a una riforma, bensì a un provvedimento ritagliato sul presente per rimuovere due soggetti che esercitano un controllo stringente, documentato, puntuale, sull'attuale maggioranza. 

In tempi in cui le mafie si trasformano, si infiltrano, mutano pelle, il tentativo di marginalizzare chi ne conosce i codici e i movimenti è un errore strategico prima ancora che politico. È un favore oggettivo alla criminalità organizzata, che teme le istituzioni vigili e presidiate, ma prospera nei vuoti e nei silenzi.

Reti di Giustizia continuerà a dare voce a chi non si piega. A chi non dimentica. A chi non ha mai smesso di credere nella forza del diritto come strumento di libertà.

 

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