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Avvocati: la responsabilità disciplinare e la volontarietà dell'azione

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La responsabilità disciplinare dell'avvocato e la volontarietà dell'azione

La responsabilità disciplinare dell'avvocato discende dall'inosservanza delle regole deontologiche e ai fini della sussistenza dell'illecito «è sufficiente la volontarietà del comportamento dell'incolpato e, quindi, sotto il profilo soggettivo, è sufficiente la "suitas" della condotta intesa come volontà consapevole dell'atto che si compie, dovendo la coscienza e la volontà essere interpretate in rapporto alla possibilità di esercitare sul proprio comportamento un controllo finalistico e, quindi, dominarlo. L'evitabilità della condotta, pertanto, delinea la soglia minima della sua attribuibilità al soggetto, intesa come appartenenza della condotta al soggetto stesso» (CNF, sentenza n. 142/2018) [1]. In buona sostanza perché la condotta del professionista assuma rilevanza sotto il profilo deontologico non occorre il cosiddetto dolo specifico e/o generico, essendo sufficiente la volontarietà con cui l'atto è stato compiuto ovvero omesso. Da detta volontarietà discende la responsabilità disciplinare dell'avvocato anche quando quest'ultimo manchi di adempiere all'obbligo di controllo del comportamento dei collaboratori e/o dipendenti. E ciò in considerazione del fatto che il «mancato controllo costituisce piena e consapevole manifestazione della volontà di porre in essere una sequenza causale che in astratto potrebbe dar vita a effetti diversi da quelli voluti, che però ricadono sotto forma di volontarietà sul soggetto che avrebbe dovuto vigilare e non lo ha fatto» (CNF, sentenza n. 49/2017). 

La volontarietà dell'azione e il principio di stretta tipicità dell'illecito

La volontarietà dell'azione da cui discende la responsabilità disciplinare dell'avvocato non si concilia con il principio di stretta tipicità dell'illecito, proprio del diritto penale, in quanto nella materia disciplinare forense non è prevista una tassativa elencazione dei comportamenti vietati, essendo variegata e potenzialmente illimitata la casistica di tutti i comportamenti (anche della vita privata) costituenti illecito disciplinare (CNF, sentenza n. 141/2018). Ne consegue che la mancata "descrizione" di uno o più comportamenti e della relativa sanzione non genera l'immunità, giacché è comunque possibile contestare l'illecito anche sulla base:

  • del mancato rispetto delle regole di indipendenza, lealtà, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza (CNF, sentenza n. 141/2018);
  • del rilievo sociale e della difesa e dei principi della corretta e leale concorrenza (CNF, sentenza n. 141/2018).

Non a caso nei procedimenti disciplinari l'oggetto di valutazione è il comportamento complessivo dell'incolpato. E ciò al fine di valutare:

  • la condotta dell'avvocato in generale (CNF, sentenza n. 239/2017);
  • la sanzione più adeguata, per la quale occorre effettuare un bilanciamento tra la considerazione di gravità dei fatti addebitati e i concorrenti criteri di valutazione, quali ad esempio la presenza di precedenti disciplinari (CNF, sentenza n. 239/2017).

Quando l'avvocato è scriminato?

In punto di responsabilità disciplinare dell'avvocato, in virtù della mancata tipizzazione dei comportamenti vietati e del principio della volontarietà dell'azione, è sufficiente che il professionista abbia il dominio anche potenziale dell'azione o omissione affinché possa la sua condotta essere suscettibile di sanzione. Questo sta a significare che «la presunzione di colpa per l'atto sconveniente o addirittura vietato è a carico di chi lo abbia commesso, lasciando a costui l'onere di provare di aver agito senza colpa. Sicché l'agente resta scriminato solo se vi sia errore inevitabile, cioè non superabile con l'uso della normale diligenza, oppure se intervengano cause esterne che escludono l'attribuzione psichica della condotta al soggetto. Ne deriva che non possa parlarsi d'imperizia incolpevole ove si tratti di professionista legale e quindi in grado di conoscere e interpretare correttamente l'ordinamento giudiziario e forense» (CNF, sentenza n. 38/2018).

Note

[1] Art. 4 codice deontologico forense:

«1. La responsabilità disciplinare discende dalla inosservanza dei doveri e delle regole di condotta dettati dalla legge e dalla deontologia, nonché dalla coscienza e volontà delle azioni od omissioni. 2. L'avvocato, cui sia imputabile un comportamento non colposo che abbia violato la legge penale, è sottoposto a procedimento disciplinare, salva in questa sede ogni autonoma valutazione sul fatto commesso». 

 

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