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L'esame di diritto privato, il racconto di Fabrizio

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Gli occhi del professor Corelli erano verdi e aspri. Quando si posavano su di me, io li evitavo sempre. Allora, gli esami di diritto privato si tenevano in un'auletta cupa e umida al primo piano. Le pareti erano colme di vecchi tomi traboccanti dalle massicce librerie, ed emanavano un odore polveroso e caratteristico che suscitava in me qualcosa di simile a una sensazione anticamente familiare e ormai, chissà come, solo 

parzialmente accessibile. Una lunga cattedra era piazzata proprio in fondo all'aula, e davanti a questa
diverse file di sedie venivano occupate dagli studenti in attesa.

Corelli era solito arrivare con almeno un'ora di ritardo, e se questo poteva infastidire i miei colleghi, per me era invece fonte di sollievo perché avevo così tutto il tempo per prendere confidenza con l'ambiente. Quando egli entrava in aula, un silenzio
improvviso decapitava il brusio dei colleghi, e subito iniziava il traffico muto di quei volti pallidi che
raggiungevano intimoriti la cattedra. Quando finalmente mi decisi a presentarmi all'appello, avevo già saltato diverse sessioni d'esame – un po' per pigrizia, un po' perché la materia era oggettivamente lunga e
complessa. Quel giorno ero l'ultimo dell'elenco e Corelli era visibilmente stanco. Io invece ero stranamente eccitato: la collega che mi precedeva non aveva fatto in tempo a riporre il libretto in borsa che già prendevo il suo posto alla cattedra. Avevo impresso sul volto quel sorriso mesto e bonario che si è soliti mostrare quando si vuole placare un cane arrabbiato; tuttavia, il mio mastino pareva non avere intenzione di degnarmi della minima attenzione. 

Mi decisi allora a sussurrare: «Buongiorno professore».
Corelli alzò il capo di scatto, come se invece del mio tremulo saluto avesse appena udito un boato provenire da un luogo imprecisato a pochi centimetri dal suo naso. Non appena mi ebbe visto, il suo sguardo fino ad allora addolcito dalla stanchezza si tramutò in quella livida severità a cui ero abituato e che ero solito temere. 

«Buongiorno professore» ripetei, sforzandomi d'ignorare il senso di sconforto che progressivamente m'invadeva. Allungai il libretto verso di lui continuando a sorridere con aria affabile,e avvertii che quello sguardo arcigno si era finalmente staccato dal mio volto per osservare ciò che le mie mani gli tendevano. 

Con un gesto rapido ma gentile, Corelli prese il mio libretto e iniziò a sfogliarlo con uno sguardo che non gli avevo mai visto prima d'allora e che, forse, non era nemmeno concepibile su quel volto: le due fessure verdi si erano adesso aperte e apparivano smarrite in un vuoto d'incertezza quasi infantile. Tutto durò
pochi secondi. Subito si riebbe, e tornò il professor Corelli. Non ricordo cosa mi chiese esattamente, ricordo solo che la mia voce cominciò a scorrere in un flusso di parole e termini tecnici che avevo parecchio faticato
a memorizzare nei mesi precedenti. Dopo neanche un minuto il professore m'interruppe facendo strisciare verso di me il libretto. Disse: «Alla luce di ciò che sento e vedo non posso promuoverla. Mi dispiace, buona
giornata». Rimasi folgorato da quella sentenza brutale, che percepivo ingiusta e gratuitamente punitiva.

Corelli, con lo sguardo basso, sistemava rumorosamente la pila di fogli su cui aveva appuntato i nomi dei suoi studenti coi loro rispettivi destini. Notai dolorosamente che non si era neanche preoccupato di scrivere
il mio nome tra gli esaminati. Mi allontanai velocemente dall'aula, come se lo spazio che fino a poco prima mi accoglieva fosse stato corrotto da una distorsione che lo rendeva adesso perverso e ripugnante. 

L'incredulità si tramutò ben presto in amarezza. Avevo studiato davvero tanto per l'esame, ed ero convinto di aver risposto in modo corretto alla domanda del professore. Raggiunsi casa, stremato, e dormii fino a
sera inoltrata. Sognai di trovarmi ancora nell'auletta del primo piano in attesa di sostenere l'esame. Mentre attendevo, mi rendevo improvvisamente conto di non aver studiato e di sconoscere nel modo più assoluto la materia. A un tratto mi trovavo seduto innanzi al professore, ma non era il solito Corelli: questa improbabile figura onirica mi chiamava affettuosamente per nome, sorridendomi. Io sbagliavo ogni parola e ogni articolo, ma lui placido mi correggeva con paterna pazienza. Alla fine mi promuoveva a pieni voti, e ogni piega del suo volto brillava d'un compiaciuto orgoglio. Mentre mi alzavo dalla sedia notavo che, improvvisamente, la sua espressione era mutata: mi rivolgeva adesso uno sguardo di rimprovero, carico di disgusto. Un senso di profondo disagio mi accompagnò ben oltre il risveglio. L'alba violava già la mia
finestra, e io mi trovavo ancora disteso nella medesima posizione in cui mi ero svegliato.

La luce sanguigna  proiettava un unico fascio nella stanza, e questo aveva capricciosamente deciso di riversarsi proprio sulla scrivania di fronte al mio letto; le lettere dorate del prolisso "istituzioni di diritto privato" scintillarono d'una
folgore luciferina. Mi bruciavano gli occhi e la gola. Cos'era accaduto il giorno prima? Possibile che avessi
commesso qualche errore grossolano di cui non m'ero accorto? Mosso da un istinto di sopravvivenza disperato e maldestro, strisciai dal letto fino alla finestra di fronte, e abbassai rumorosamente la serranda.
Dormii per il resto della mattina, senza sognare. Quando mi svegliai, decisi che mi sarei ripresentato
all'appello successivo.

Quindici giorni dopo, mi trovai nuovamente in attesa nell'ormai odiata aula – e stavolta non sognavo mica: il baccano prodotto dai colleghi testimoniava la vita cosciente in quell'anfratto di universo che, per puro caso, ci trovavamo a condividere. Quando arrivò Corelli io sudavo e sorridevo, perché avvertivo che la mia rivalsa era prossima a realizzarsi. Continuai a sorridere e – beninteso – a sudare per parecchio tempo, fino a quando non notai quasi per caso che il collega prenotato prima di me si era appena alzato. Subito mi fiondai sul posto lasciato vuoto. Mentre tiravo fuori il libretto, Corelli si alzò sbottonandosi la vecchia
giacca: il velluto nero gli ingabbiava quella flaccida rotondità che, negli uomini della sua specie, costituisce un autentico segno distintivo, e che viene coltivata non senza un certo impegno. Tutto in quell'aggregato di baffi, adipe e velluto suggeriva una personalità rigida e limitata dalla propria severità: nella vita non
avrebbe potuto fare altro se non insegnare diritto privato. Per un attimo provai una profonda pena per lui; l'attimo successivo provai pena per me, e rabbia nei suoi confronti. Chi gli dava il diritto di trattarmi in quel modo? Dopotutto, non era pagato per trattare con sufficienza i suoi studenti, ma per verificare che avessero appreso ciò che lui stesso gli aveva insegnato. 

Che mi esaminasse, dunque! Ma Corelli sostava in tutta la sua mole di fronte alla finestra, perso in chissà quale lontana malinconia. Dissi: «Salve professore»,
in un certo tono cupo che voleva suonare più come un rimprovero che come un saluto. Dovetti esagerare col volume, perché Corelli si girò di scatto, con lo stesso sguardo allarmato che avevo già visto due settimane prima. Mi guardò perplesso, e venne cauto a sedere di fronte a me,protetto dalla giacca che
aveva prontamente abbottonato per intero. Esordì, a bruciapelo:        « Può la nullità essere rilevata d'ufficio? Risponda solo si o no.». Risposi di si. Continuò: «E l'annullabilità?». Risposi di no. Distolse lo sguardo e, guardando verso la finestra pronunciò delle parole ormai a me tristemente familiari: «Mi dispiace, ma allo stato attuale delle cose non posso promuoverla. Arrivederci.». Sentii il sangue tramutarsi in onde bizzose, e le vene delle mie tempie dovevano essere visibili: turgide e simili a rami bluastri, le avvertivo pulsare veloci, sincrone al cuore. Senza che avessi il tempo di rendermi conto del potenziale guaio in cui mi stavo cacciando, esclamai:« No! Ho studiato duramente per l'esame, e ho risposto in modo corretto! Perché non vuole promuovermi? Mi risponda! Perché? ». Subito dopo aver dato adito a quella tempesta miscellanea di collera e frustrazione mi resi conto che Corelli stava guardandomi con due occhi verdi e grandi, da bambino. 

Sussurrò, dolcemente: «Mio caro ragazzo, io non posso promuoverla per il semplice motivo che
lei non esiste.». Pensai di aver sentito male. Continuò: «Pur volendolo, non potrei. E mi dispiace molto, mi creda. Povero, povero ragazzo, ascolti finalmente il mio consiglio, torni a casa.». Inizialmente dovetti contenermi con tutte le mie forze per non scoppiare in una fragorosa risata; notando che Corelli non
scherzava affatto, sentii il sangue abbandonare il mio volto per tramutarlo in una desolata maschera di anemico terrore. Afferrai di scatto il mio libretto, come per ribellarmi a quella nuova e crudele realtà che mi era stata imposta, e iniziai a sfogliarne le pagine: erano tutte bianche. Anche l'intestazione e la matricola
erano occupate solo da spazio vuoto.

- « È impossibile, io sono uno studente di questa facoltà, e in quanto tale ho il diritto di sostenere l'esame! Sono regolarmente iscritto, il mio nome è…»

- «Qual è il suo nome, ragazzo?». Mi resi conto di non saperlo. Tremando, portai le mani a quello che avrebbe dovuto essere il mio volto, ma non vi trovai né naso, né occhi, né bocca. Lanciai uno sguardo supplicante in direzione di Corelli, sperando di incrociare quegli occhi severi e familiari, ma trovai invece solo il volto di un vecchio commosso e usurato
dalla stanchezza. «Torni a casa», ripeté in un sospiro. Reggendomi a malapena sulle gambe, feci ritorno in quella che, ormai da tempo immemore, era divenuta la mia casa. Silenziose, le pagine gialle e rattrappite del vecchio tomo di diritto privato mi accolsero dalla scrivania, simili alle braccia aperte di una madre anziana e comprensiva.
Mi distesi sul letto che ancora tremavo, ma mi addormentai quasi subito. Da allora, il professor Corelli viene vpesso a visitarmi in sogno, e a volte riesco a sostenere il suo sguardo.

Fabrizio Bella

 

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