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Il rapporto avvocato cliente ai tempi del Covid-19

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Con il Covid-19 si aprono nuove possibilità perché è un avvenimento che non ha precedenti. Non esiste un passato le cui regole o tradizioni, elevatesi a sovrastruttura, ci dicono cosa provare o come vivere questo momento. Confinati a casa, siamo letteralmente fermi in questo presente senza Storia, ma, poiché la vita non si ferma mai, se la progressione lineare, orizzontale, è preclusa, essa si sviluppa in altezza, in diagonale, a zig zag. Se l'oggetto da osservare è infatti sempre lo stesso, nondimeno ci è dato cambiare prospettiva e, con il cambio di prospettiva, si apre il ventaglio delle possibilità.

Esiste dunque un "prima" del Covid, in cui il significato delle cose, della vita, della routine, era dato per scontato, forse. In tale contesto la nostra scelta si limitava, per lo più, al grado di adesione alla mentalità prevalente. Ed esiste un "dopo", ove il significato di ciò che facciamo (o meno), è tutto da costruire.

Ma esiste un "prima" e un "dopo" anche con riferimento al rapporto avvocato-cliente?

Si potrebbe rispondere a questa domanda partendo dal contesto, inteso come significato emotivo/affettivo che attribuiamo all'ambiente in cui viviamo. Si consideri che noi avvocati italiani ci caratterizziamo per la capacità di fare fronte ad un sistema di giustizia spesso fallimentare sotto il profilo giuridico e burocratico. Siamo abituati a prevedere l'imprevedibile e questo ci ha portato a sviluppare l'abilità di decifrare problemi e superare ostacoli ben oltre le nostre competenze tecniche. Come categoria, dunque, non solo il "disastro", ce lo aspettiamo, ma siamo anche attrezzati per risolverlo.

 In questa prospettiva, il Covid, e con esso tutti i problemi pratici che si pongono nel gestire la quotidianità della professione, non ci coglie di sorpresa. E' sì un problema nuovo, ma nell'economia dei problemi rappresenta solo l'ennesima complicazione tra tante altre.
Dal canto suo il cliente sperimenta anch'egli una continuità tra prima e dopo il Covid perché così come aveva una causa o un processo pendente, prima, e con essi le correlate emozioni per lo più negative, allo stesso modo continua ad averli anche dopo. La sua rappresentazione emozionale del processo o della causa, cioè, non registra mutamenti tra prima e dopo il Lockdown, potendo quest'ultimo fornire, tutt'al più, il motivo di un ennesimo rinvio.
Ciò che cambia, invece, è la forma della comunicazione tra avvocato e cliente per il fatto di non potersi più incontrare di persona. Sul punto, però, un distinguo: chi era abituato con i vecchi clienti a comunicare anche via email, sms, whatsapp prima del Lockdown, continuerà ad usare tali mezzi anche dopo, senza soluzione di continuità.
La vera novità, a mio parere, si verificherà con i clienti nuovi quando la comunicazione, sin dal primo incontro, avverrà da remoto tramite videochiamata.
Segue qualche riflessione al riguardo, sul presupposto che la distanza tra avvocato e cliente è fisiologica e necessaria per la corretta esecuzione dell'incarico e per una sana gestione del rapporto:
1) il dispositivo elettronico usato per effettuare un video-incontro, poniamo il caso di un computer, dà l'illusione dell'assenza di profondità. Detto in altri termini, l'avvocato viene spogliato di tutto ciò che materialmente comunica distanza tra professionista e cliente, quali, lo studio, la sala d'aspetto, la segretaria e tutti quegli accessori e orpelli che contraddistinguono la nostra professione.
2) La cultura di cui ciascuno di noi è intriso per il fatto di esserci nati e cresciuti, ci condiziona al punto da rendere immediata l'attribuzione di significato alle diverse distanze tra le persone. Tra queste, quella "personale" per l'interazione tra amici (ca. 45–120 cm), e quella "sociale" per la comunicazione tra conoscenti o quella con i professionisti (ca. 1,2-3,0 metri).
Se è vero, dunque, che la distanza tra avvocato e cliente è di circa un metro e mezzo (i.e. "sociale"), quando l'incontro avviene a studio, complice la larghezza di una scrivania, nell'incontro virtuale tale distanza si riduce notevolmente, a circa 50 cm per lato, uno spazio, cioè, che siamo programmati ad interpretare come "personale".

Sulla base di tali premesse si può supporre che l'apparente avvicinamento tra professionista e cliente, provocato dall'incontro virtuale, favorisca ulteriormente la confusione tra i ruoli di avvocato-professionista-inaccessibile e avvocato-amico-accessibile. Ciò ancor più di quanto sia già accaduto con il diverso fenomeno della "webcompetenza" del cliente (di colui, cioè, che si fa un'autodiagnosi su internet), che aveva determinato un rovesciamento dei ruoli tra chi formula domande e chi risponde.
Quanto sopra potrebbe portare, in primis, ad una riflessione personale sul concetto di autorevolezza che non può più reggersi su elementi esterni al rapporto, almeno nel modo in cui li abbiamo concepiti sin ora.
In secondo luogo, è bene ricordare che l'accorciamento delle distanze ha anche un preciso significato emozionale per il cliente, il quale, ancor più di prima, potrebbe non riuscire a tollerare la dipendenza dall'avvocato. Si tenga presente, infatti, che al concetto di dipendenza di una parte è strettamente correlato quello di "superiorità" dell'altra.
Quando, dunque, il cliente non riesce ad accedere al valore strumentale del binomio superiorità-dipendenza rimanendo confinato al significato emotivo primitivo di esso, è bene sapere che egli potrà attuare azioni di disturbo della relazione per togliersi da quella posizione. Egli, cioè, dimentico del problema tecnico originario che lo ha indotto a rivolgersi al professionista, agirà condotte che hanno l'effetto di svilire l'autorevolezza dell'avvocato.
Gli esempi più eclatanti di tali comportamenti si rinvengono nel dare del "tu" al professionista, nel commentare lo stile relazionale, o altre scelte contestuali, dell'avvocato (ad esempio, "Lei è troppo poco aggressivo/a"), o nell'indugiare in apprezzamenti estetici sulla persona.
Dette condotte, che realizzano un attacco al ruolo, alla persona del professionista o alle regole dell'incontro, con l'intento di confondere o sovvertire i ruoli e l'effetto di creare disagio nel professionista, concretizzano quel fenomeno che si può definire, in termini psicologico-clinici, come "provocazione" .
Riconoscere la provocazione, che non è sempre evidente come negli esempi appena fatti, diventa per l'avvocato la sua prima e più importante difesa. Si consideri infatti che la provocazione attacca l'autorevolezza del ruolo con la speranza che, nel reagire, il professionista si svesta dello stesso.
Non è dunque importante la risposta che, in concreto, l'avvocato darà, bensì che lo stesso non si tolga mai la "toga". Non è la persona, che deve rispondere, ma il dominus che in questo modo dimostra di esserlo non solo della questione tecnica, ma anche, e soprattutto, del rapporto.
Stringendomi ai Colleghi in questo difficile momento con un abbraccio virtuale, non mi dilungo oltre e rimando, per un più approfondito esame del contesto e degli altri ostacoli che l'avvocato si potrebbe trovare ad affrontare nel rapporto con il cliente, a quanto descritto ne "Il rapporto avvocato-cliente. Le aspettative, le richieste non espresse, la gestione del rapporto", 2019, Primiceri Editore.

Deborah Wahl
Avvocata del Foro di Roma, dr.ssa in psicologia clinica, autrice del libro, "Il rapporto avvocato-cliente. Le aspettative, le richieste non espresse, la gestione del rapporto", 2019, PE Primiceri Editore (Padova).

 

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