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Gabriella Di Francesco e la sua lotta contro Cassa Forense: "Tutti noi discriminati, assurdo pagare senza alcun reddito"

All´esito del giudizio promosso da Gabriella nei confronti di Cassa Forense, avverso l´imposizione di un contributo minimo obbligatorio slegato dal reddito, il G.L. di Palermo ha condannato la Collega al pagamento delle spese di lite per € 850, oltre spese generali, cpa e iva, emettendo la Sentenza n. 515/2018 (all.), in cui viene confermato l´orientamento dei Giudici di merito secondo cui "la delegificazione operata dal legislatore nel consentire a Cassa Forense di stabilire la misura del contributo minimo obbligatorio non ´sembra´ in sé violare alcun limite costituzionale". Ricordiamo, in proposito, anche la Sent. del Trib. di Roma n. 6969/16, in cui il Giudice, nel condannare il Collega Andrea Falcetta al pagamento delle spese di lite per € 1.800, affermava che "la delegificazione effettuata a favore dell´autonomia dell´ente previdenziale privatizzato come la Cassa deve rientrare entro limiti costituzionali e si ritiene che il consentire alla Cassa di stabilire la misura del contributo minimo obbligatorio non violi alcun limite della Costituzione" (all.). Parimenti si legge nella Sent. del G.L. di Roma n. 4805/2017 in cui "la delegificazione operata dal legislatore nel consentire a Cassa Forense di stabilire la misura del contributo minimo obbligatorio non ´sembra´ in sé violare alcun limite costituzionale".
Orbene, ciò che la giurisprudenza di merito non sembra aver valutato è proprio l´ effetto dell´iscrizione obbligatoria in via esclusiva rispetto al decreto 509/94, in cui la privatizzazione è riconosciuta all´ente a condizione di non ricevere alcun aiuto di Stato di natura finanziaria, ancorché indiretto, quale, appunto, l´iscrizione obbligatoria in via esclusiva.
La Corte Costituzionale con ordinanza n. 254/2016 non ha inteso esaltare, con la delegificazione della materia (Cass. Lav. 24202/2009), l´autonomia normativa delle casse di previdenza dei liberi professionisti, perché anche gli atti di delegificazione, idonei ad abrogare e modificare le disposizioni di legge, sono soggetti al controllo di legittimità della Corte Costituzionale.
In questa nuova visione dell´ impianto normativo, contrariamente a quanto affermato dai giudici del lavoro, appaiono violati alcuni principi costituzionali, rappresentati proprio dagli artt. 38 e 53 Cost., in combinato disposto con l´obbligatorietà dell´iscrizione alla Cassa Forense in via esclusiva.
Le tutele previste dai suddetti precetti costituzionali si sarebbero, dunque, potute e dovute inserire nel sistema di Cassa Forense, immediatamente, al momento dell´entrata in vigore della 247/2012, direttamente dal management, proprio attraverso la potestà regolamentare, anche derogando alla legge, nella parte in cui prevede l´imposizione di un contributo minimo obbligatorio.
Questo intervento rivoluzionario, fino ad oggi, non è stato realizzato, preferendo utilizzare la delegificazione per svilire i diritti degli iscritti, piuttosto che tutelarli.
Riportiamo ora la lettera e gli atti del ricorso di Gabriella
"Sono un avvocato del foro di Palermo, laureata nel 2010 e, come molti, ho passato subito l´esame di abilitazione. Nel mese di gennaio 2014 mi sono iscritta all´ Albo ed il primo anno – non essendo figlia d´arte- non ho prodotto reddito. A gennaio del 2015 ho ricevuto, come molti, la lettera della cassa con cui mi è stata comunicata l´iscrizione obbligatoria alla Cassa di previdenza ed il relativo pagamento agevolato – secondo loro- pari ad 846 euro per l´anno 2014.
Importo, che mi avrebbe garantito sei mesi di contribuzione valida a fini pensionistici; unitamente alla richiesta dei contributi per l´anno 2014 mi comunicavano gli importi da pagare per l´anno 2015. Come tanti ho presentato reclamo alla Cassa, rilevando che non avevo prodotto alcun reddito nel corso del 2014 e chiedevo dunque di non dover versare nessun contributo alla stessa; La Cassa, tuttavia, ha ritenuto infondate le mie doglianze ed ha rigettato il reclamo.
Ho quindi proposto ricorso con istanza di sospensione dinnanzi al giudice del lavoro.
Il giudice ha ritenuto di non dover concedere la sospensiva e nelle more del processo ho provveduto al pagamento delle somme richieste dalla Cassa.
Un processo iniziato nel 2015 e conclusosi soltanto nel mese di febbraio 2018 con il rigetto del ricorso e la condanna alle spese.
Alla prima udienza il giudice ha sollevato una questione preliminare circa l´effettivo interesse ad agire, disponeva quindi una nuova udienza dandomi termine per depositare memorie tese a dimostrare l´esistenza dell´interesse ad agire anche senza ,che le somme richieste venissero iscritte a ruolo.
Superata la questione preliminare circa l´ammissibilità della domanda, la causa continua e alle successive udienze sottopongo all´attenzione del giudice i principi di diritto che io ritengo violati.
In particolare mi soffermo sull´imposizione di un contributo previdenziale che è slegato dalla capacità contributiva concreta del professionista e che lega la possibilità di svolgere la professione, per la quale ho studiato, alle capacità patrimoniali della famiglia d´origine.
Questo è certamente l´aspetto più sconcertante.
La possibilità per un neo avvocato di esercitare la professione, dopo anni di studio e di pratica non retribuita, si lega alle disponibilità del patrimonio familiare.
Rilevo, altresì, che l´Unione Europea all´art. 21 della Cedu vieta qualsiasi forma di discriminazione fondata sul patrimonio; eppure, il precetto è costantemente violato tutte le volte che un avvocato che, non ha prodotto reddito, si trova costretto a pagare una somma che non ha.
Come qualsiasi contributo anche quello previdenziale dovrebbe essere improntato a principi di capacità reddituale.
Non può essere ritenuto equo chiedere una somma- che per molti può sembrare irrisoria- a chi si sta appena affacciando al mondo del lavoro.
In una situazione dove persino i grossi studi risentono della crisi economica che ha colpito il paese ancora una volta il peso più grande ricade sui giovani e sulle famiglie.
Si chiedono somme che non si hanno pena la cancellazione dall´albo.
A nulla è valso evidenziare al giudice che la situazione lavorativa di chi, come me, è neo avvocato avviene a titolo gratuito o quasi presso gli studi dei dominus.
Tra le motivazioni di rigetto della domanda si legge: "Le disposizioni costituzionali invocate dalla ricorrente e contrariamente a quanto sostenuto dalla stessa impongono di ritenere che nel nostro ordinamento all´espletamento di attività latu sensu lavorativa sia essa intellettuale o manuale esercitata in forma autonoma o subordinata dietro pagamento di corrispettivo debba accompagnarsi la copertura previdenziale."
È l´ennesima beffa, il pagamento del contributo previdenziale è vincolato allo svolgimento dell´attività professionale remunerata; nessuna remunerazione e nessuna attività lavorativa è stata svolta nel 2014 eppure devo pagare ugualmente.
Continuando nella sentenza si rinviene " ogni emolumento percepito a qualsiasi titolo non sfugge alla contribuzione previdenziale, e quindi, il compenso ridotto percepito dal giovane avvocato va comunque assoggettato a contribuzione"
"A nulla rileva che detto contributo non risulti proporzionale al reddito professionale"
"la delegificazione operata dal legislatore nel consentire alla Cassa Forense di stabilire la misura del contributo obbligatorio minimo non sembra in se violare alcun limite costituzionale".
"posto che nessuna deduzione concreta è stata effettuata per ritenere che la misura del contributo obbligatorio sia stata individuata in modo irragionevole o arbitrario, la censura va disattesa" .
La conclusione che si ricava dalla sentenza è semplice.
Con un reddito lavorativo percepito pari a zero è assolutamente lecito che ti vengano chiesti €846 a titolo di contributi previdenziali [ovvero € 3.600 dopo il periodo agevolato, ndr]; come reperire la somma di denaro non è dato saperlo.
Mi piacerebbe vedere lo stesso zelo con cui chiedono le somme - a chi non ha reddito- nell´effettuare i dovuti controlli in merito agli studi legali provvisti di giovani colleghi e praticanti al fine di verificare che questi elargiscono il giusto riconoscimento economico ai propri collaboratori.
La realtà è che il sistema è strutturato in modo da tutelare i grossi studi, e schiacciare tutti gli altri. Un soggetto che non percepisce reddito è, di norma, considerato inoccupato o disoccupato ed è esentato dal pagamento delle tasse, ed in un paese civile lo stato gli offre un sussidio così come offrirebbe concreti aiuti ad un giovane che vuole immettersi nel mercato del lavoro, in Italia un professionista che non percepisce reddito deve comunque pagare i contributi previdenziali a fini pensionistici.
Ho intrapreso questa professione perché credo profondamente nella giustizia, consapevole che la professione forense richiede impegno e dedizione, ma la realtà è ben diversa.
I tribunali sono giungle destinate soltanto ai veterani; gli stessi che gattopardianamente affermano che è iniziata una nuova era e che gli studi legali devono evolversi in strutture complesse di rete in cui dovrebbero farne parte anche i giovani colleghi.
E allora "Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi"..
Sino a quando i cambiamenti saranno gestiti da chi gode di una posizione di privilegio rispetto agli altri i cambiamenti saranno soltanto fittizi e tutto rimarrà invariato.
Ovviamente ho evitato di proporre appello, sarebbe come lottare contro i mulini a vento, con ulteriori costi da sostenere e consapevole già di non ottenere una sentenza diversa da quella emessa in primo grado.
Hanno deciso di decimare gli avvocati ma il sistema scelto è tutt´altro che meritocratico, ma basato sul patrimonio personale che nulla ha a che fare con la professione forense."
Avvocato Daniela Nazzaro
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