Le critiche mosse oggi dall'Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione al cosiddetto "decreto Sicurezza" non possono essere archiviate come una presa di posizione episodica o tecnica. Al contrario, esse rappresentano un segnale d'allarme che investe l'intero assetto costituzionale e democratico della Repubblica.
Secondo l'Ufficio, alcune disposizioni del decreto si presentano come irragionevoli, altre palesemente sproporzionate, molte in tensione con il principio di uguaglianza e con il divieto di trattamenti disumani o degradanti, con una visione della pena come vendetta sociale piuttosto che come strumento di reinserimento. Una valutazione tanto severa, espressa in sede ufficiale da un organo di nomofilachia, è rarissima nella prassi italiana e indica che la qualità giuridica del provvedimento è stata sacrificata a una logica simbolica e securitaria, a tratti ideologica. In disparte, poi - ma questa è altra questione - l'abuso della decretazione d'urgenza, in violazione conclamata della Costituzione.
Ma il punto più rilevante è che il decreto Sicurezza, lungi dall'essere un corpo estraneo, si colloca nella linea di coerenza di un progetto normativo e costituzionale che manifesta sempre più chiaramente una torsione autoritaria e una visione monistica del potere. Non è un caso che, in parallelo, il Governo Meloni stia rilanciando: A) la riforma sull'autonomia differenziata, che punta alla disarticolazione del principio di unità e indivisibilità della Repubblica, trasformando il regionalismo cooperativo in un mosaico diseguale e competitivo di diritti fondamentali condizionati dal luogo di residenza, questione alla quale ho dedicato il secondo libro sul tema - appena editato - dal titolo "Autonomia differenziata: dal No della Corte ad una riscrittura secondo Costituzione" con uno schema di proposta di legge che intende recuperare la fecondità del principio, sia pure in particolari e motivate condizioni, e non nello schema ex parte principis che era stato dosato da Calderoli (e demolito dalla Consulta); B) la separazione delle carriere tra magistratura giudicante e requirente, con il correlato svuotamento dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura, l'avvio di una progressiva subordinazione del pubblico ministero all'esecutivo e il possibile rischio di una eterogenesi dei fini; C) la riforma costituzionale in materia di premierato, che spezzerebbe l'equilibrio tra i poteri e la funzione di garanzia del Presidente della Repubblica, consegnando al leader della maggioranza una posizione di dominio rispetto al Parlamento e al sistema delle autonomie.
Si tratta, a mio avviso, di riforme formalmente distinte ma intimamente interconnesse, che concorrono a ridisegnare l'architettura costituzionale italiana secondo un modello accentrato, verticale, populista e gerarchico. L'apparente disorganizzazione della strategia riformatrice – che spazia dalla giustizia penale alla forma di governo, dal regionalismo ai poteri del Presidente – nasconde una coerenza di fondo: la volontà di svuotare i contro-poteri, depotenziare le autonomie, ridurre gli spazi di giurisdizione e di mediazione istituzionale.
Nel quadro di questo disegno, la funzione stessa del diritto viene snaturata. Non più strumento di bilanciamento, garanzia e razionalità, ma veicolo di affermazione della forza del potere esecutivo, terreno simbolico di scontro, e arma di consenso.
Il ruolo della magistratura – come quello delle Corti, delle Università, dell'informazione giuridica, della stessa Avvocatura – è oggi chiamato a una rinnovata vigilanza. Non si tratta, ovviamente e banalmente, di "contrastare il Governo", nè di giocare un ruolo politico, ma di preservare la Costituzione da un progressivo svuotamento per via normativa, più subdolo perché apparentemente legale. È dovere di ogni giurista, oggi più che mai, non rimanere neutrale dinanzi all'evidenza di una torsione che compromette i fondamenti pluralisti, egualitari e democratici dell'ordinamento. Perché la Costituzione si difende non solo nelle aule parlamentari o giudiziarie, ma anche nel rigore del linguaggio giuridico, nella lucidità dell'analisi tecnica e nell'etica della responsabilità.