Di Carmela Patrizia Spadaro su Domenica, 13 Luglio 2025
Categoria: Giurisprudenza Cassazione Civile

Testamento revocato: il chiamato all’eredità paga l’imposta di successione?

Riferimenti normativi: Art.43 D.Lgs.n.346/1990

Focus: Il contribuente chiamato all'eredità in virtù di un testamento olografo, successivamente revocato, è soggetto passivo dell'imposta di successione? Sulla questione si è pronunciata la Corte di Cassazione con la sentenza n.14063/5 del 27/05/2025?

Il caso: Nel caso di specie, un contribuente, chiamato all'eredità in virtù di un testamento olografo, aveva presentato la dichiarazione di successione sulla base del testamento che successivamente era stato revocato dal de cuius. Essendo in presenza di un testamento l'Agenzia delle Entrate aveva notificato al contribuente un avviso di liquidazione con la richiesta di corresponsione dell'imposta di successione. Il contribuente aveva impugnato il citato avviso sostenendo la propria qualità di mero "chiamato all'eredità" (non avendo, a suo dire, accettato l'eredità, né espressamente né in modo tacito) ed eccependo, pertanto, l'insussistenza del presupposto impositivo, tanto più che dopo l'apertura della successione erano stati pubblicati due successivi testamenti olografi, oggetto di accertamento giudiziale, a favore di una terza persona.

La Corte di giustizia tributaria di primo grado aveva respinto il ricorso del contribuente.Quest'ultimo aveva impugnato la sentenza dinanzi alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado la quale, invece, aveva dato ragione al contribuente evidenziando che nel nostro ordinamento quando ci sono più testamenti vale solo l'ultimo, cioè quello con la data più vicina all'evento morte e, nel caso di specie, dalla documentazione esistente agli atti si rilevava che il contribuente era il chiamato all'eredità nel primo testamento olografo al quale erano seguiti altri due testamenti olografi a favore di un altro soggetto che aveva accettato integralmente l'eredità. Detta decisione è stata impugnata dall'Agenzia delle Entrate con ricorso in Cassazione per tre motivi: con il primo motivo l'Ufficio ha dedotto che nelle successioni testamentarie, ai sensi dell'art.43 del D.Lgs.n.346/1990, l'imposta si applica in base alle disposizioni contenute nel testamento, anche se impugnate giudizialmente, nonché agli eventuali accordi diretti a reintegrare i diritti dei legittimari, risultanti da atto pubblico o da scrittura privata autenticata. Quindi, nel caso di specie, poiché il contribuente aveva accettato espressamente l'eredità, devolutagli per testamento dalla defunta, presentando la dichiarazione di successione è soggetto passivo di imposta. Con il secondo motivo, l'Ufficio ha evidenziato che il Collegio d'appello avrebbe dovuto disporre la sospensione del giudizio, in attesa del pregiudiziale accertamento in ordine alla falsità del secondo testamento, e che il contribuente non solo aveva posto in essere atti dispositivi dei beni facenti parte dell'asse ereditario ma, in relazione a tali atti dispositivi, aveva anche promosso specifiche azioni per assicurarne la concretezza e l'effettività, tendente a garantire i propri diritti di credito "quale erede testamentario della defunta". Con il terzo motivo, l'Ufficio ha contestato l'affermazione dei giudici di appello secondo i quali il contribuente non ha assunto, nel caso di specie, la qualità di erede, a seguito della pubblicazione di due testamenti redatti in data postuma rispetto a quello redatto in suo favore con i quali è stato nominato erede un soggetto diverso.

Il contribuente con controricorso ha eccepito l'inammissibilità del ricorso proposto dall'Agenzia delle Entrate in quanto l'atto introduttivo dell'Agenzia si limitava a riportare stralci di documenti e atti del giudizio di merito, senza un'adeguata ricostruzione giuridica dei fatti né un'esposizione chiara delle contestazioni alla sentenza impugnata. La Corte di Cassazione, richiamando i principi del presupposto impositivo dell'imposta di successione e donazione, reintrodotta dall'art. 2, comma 47, D.L. n.262/2006, ha evidenziato che, a norma dell'art. 28 del Decreto Legislativo n. 346/90, il presupposto dell'obbligo di presentare la dichiarazione non è la qualità di erede accettante l'eredità bensì quella di chiamato all'eredità. L'art.7, comma 4, del citato D.Lgs. n.346/1990 prevede che: "Fino a quando l'eredità non è stata accettata, o non è stata accettata da tutti i chiamati, l'imposta è determinata considerando come eredi i chiamati che non vi hanno rinunziato". Pertanto, l'imposta va determinata considerando come eredi i chiamati che non provino di aver rinunciato all'eredità o di non avere titolo di erede legittimo o testamentario ed è liquidata dai soggetti obbligati al pagamento in base alla dichiarazione di successione, (...)" (art. 27, comma 2), e art. 33, comma 1) del citato decreto legislativo. Nel caso di specie, a fronte della istituzione di erede universale del contribuente a cui veniva attribuito il patrimonio ereditario nel primo testamento, la revoca espressa del precedente testamento da parte del de cuius, secondo la dottrina e la giurisprudenza, ha effetti retroattivi, cioè il testamento revocato è come se non fosse mai esistito e il rinvenimento del secondo testamento revocatorio del primo esclude l'efficacia successoria di quest'ultimo dal momento della morte del testatore. Di conseguenza, la revoca del testamento, in ordine al quale il contribuente ha presentato la dichiarazione di successione, aveva provocato la perdita della sua qualità di chiamato all'eredità e reso inefficace il testamento revocato con efficacia retroattiva senza far sorgere alcun obbligo tributario. In conclusione, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso dell'Agenzia delle Entrate. 

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