Di Rosalia Ruggieri su Mercoledì, 09 Aprile 2025
Categoria: Giurisprudenza Cassazione Penale

Condivide la denuncia sporta contro il proprio avvocato, SC: “E’ diffamazione”

Con la sentenza n. 9126 dello scorso 5 marzo, la V sezione penale della Corte di Cassazione ha confermato la condanna per il reato di cui all'art. 595, commi 1 e 3, c.p. inflitta ad un uomo che aveva diffuso a mezzo mail una denuncia querela presentata presso la Procura della Repubblica di Milano contro un suo avvocato.

Si è, difatti, precisato che "nella mail, le reiterate affermazioni afferenti ad una pretesa negligenza professionale del difensore in relazione a specifici processi in cui l'imputato era stato difeso dalla persona offesa ("cattivo atteggiamento professionale degli avvocati... hanno fatto finta di niente"), sono idonee, nella loro oggettività e secondo il comune senso di decoro, ad incidere sulla considerazione che la persona (diffamata) ha acquisito all'interno del gruppo sociale ove essa è inserita, incrinando la sua reputazione professionale".

Nel caso sottoposto all'attenzione della Cassazione, sia il Tribunale di Torino che la Corte di appello di Torino riconoscevano un uomo colpevole del reato di cui all'art. 595, commi 1 e 3, c.p. in quanto aveva diffuso a mezzo mail una denuncia querela presentata presso la Procura della Repubblica di Milano del seguente tenore: "si chiede in primo luogo di perseguire gli avvocati che non hanno mai consegnato nessuna sentenza, oltre ai giudici della corte d'appello di Torino, che invece di dare atto del cattivo atteggiamento professionale degli avvocati, hanno fatto finta di niente, facendo pagare ogni conseguenza penale al sottoscritto", e così offendendo la reputazione di un avvocato nominato suo difensore d'ufficio in altro procedimento penale. 

Ricorrendo in Cassazione, l'imputato censurava la decisione evidenziando violazione di legge e degli artt. 49 e 595 c.p. nella parte in cui la Corte d'appello si era limitata a negare l'operatività di un ipotetico diritto di critica, senza, però, valutare, preliminarmente la valenza offensiva delle frasi richiamate nel capo d'imputazione, frasi dal contenuto così talmente astruso e delirante da essere, in sé, inidonee a ledere la reputazione delle persone ivi menzionate; si eccepiva, inoltre, come le summenzionate frasi erano state rivolte anche ad altri soggetti (i giudici della Corte d'appello di Torino), tutti soggetti con specifiche competenze tecniche, che mai avevano ritenuto credibili le accuse del ricorrente.

La Cassazione non condivide le doglianze formulate.

Gli Ermellini ricordano che la condotta diffamatoria si sostanzia, nella sua oggettiva materialità, nella propalazione di notizie lesive della reputazione di un individuo, intesa come l'insieme delle qualità morali, intellettuali e fisiche da cui dipende il valore della persona nel contesto sociale in cui vive; un dato, quindi, che non si identifica con la considerazione che ciascuno ha di sé o con il semplice personale amor proprio, ma con il senso di dignità di cui ciascuno gode all'interno di un gruppo sociale, in un determinato contesto storico di riferimento. 

In relazione al caso di specie, gli Ermellini evidenziano come il tenore offensivo della mail non si rinviene nell'affermazione afferente all'omessa comunicazione della sentenza all'imputato da parte del suo difensore: secondo gli Ermellini, infatti, la lesività si percepisce nelle reiterate affermazioni afferenti ad una pretesa negligenza professionale del difensore in relazione a specifici processi in cui l'imputato era stato difeso dalla persona offesa ("cattivo atteggiamento professionale degli avvocati... hanno fatto finta di niente"), affermazioni che non si risolvono in una mera sconvenienza o in un'infrazione alla suscettibilità o alla gelosa riservatezza della persona offesa, ma che sono idonee, nella loro oggettività e secondo il comune senso di decoro, ad incidere sulla considerazione che la persona (diffamata) ha acquisito all'interno del gruppo sociale ove essa è inserita, incrinando la sua reputazione professionale.

In conclusione, la Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. 

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