Il 22 luglio 2025 il Senato della Repubblica ha scritto una pagina cupa della nostra storia costituzionale. Con 106 voti a favore, il disegno di legge che separa le carriere tra giudici e pubblici ministeri ha superato la seconda lettura parlamentare. Ma ciò che più inquieta non è solo il contenuto della riforma, quanto il metodo con cui è stata imposta: senza alcuna discussione, senza possibilità di emendamento, con una forzatura procedurale che ha umiliato il Parlamento e svuotato di senso il principio del confronto.
Mai, in 75 anni di storia repubblicana, una riforma costituzionale di tale rilievo era stata approvata in questo modo. Si è scelto il silenzio, con la maggioranza solo a tenere il numero legale, e la minoranza cangurata, messa all'angolo, con una prassi quasi da regime.
Il cuore della riforma è noto: separare il pubblico ministero dalla magistratura giudicante. In apparenza, potrebbe sembrare una proposta neutra, perfino ragionevole, ma se il pubblico ministero italiano è indipendente, è Innanzitutto perchè la sua collocazione nel medesimo ordine dei giudici garantisce un bilanciamento profondo tra potere di accusa e garanzie della difesa.
La separazione delle carriere è una riscrittura dell'architettura costituzionale. È l'anticamera di una doppia magistratura, con due consigli superiori separati, due concorsi distinti, due carriere con logiche diverse, e – soprattutto – due livelli di indipendenza non più garantiti allo stesso modo. Il rischio è la politicizzazione del pubblico ministero, la sua progressiva subordinazione all'esecutivo, come accade in tutti gli ordinamenti dove l'autonomia dell'azione penale è solo una finzione formale. Ho appena studiato i sistemi delle democrazie avanzate, incrociando Costituzioni e ordinamenti giudiziari, ed è appena stato editato un libro, in cui dimostrerò questi assunti.
Per questo, d'altra parte, i Costituenti scelsero di tenere unita la giurisdizione, pur nella diversità delle funzioni. Per questo la Corte costituzionale ha più volte riaffermato l'appartenenza del pubblico ministero all'ordine giudiziario. Per questo, infine, tanti magistrati, costituzionalisti, giuristi di valore e cittadini consapevoli si oppongono a questa riforma: perché non è una riforma della giustizia, ma una controriforma del potere.
Non è un caso che Tajani abbia parlato del "sogno di Berlusconi" che finalmente si realizza. È un disegno che attraversa quarant'anni di storia, dalla P2 al processo breve, dalle leggi ad personam alle leggi bavaglio. Oggi, quel disegno indossa il volto più rassicurante della modernità, ma ne conserva intatti gli obiettivi eversivi.
Eppure, la riforma non è ancora legge. Dopo il secondo passaggio al Senato, serviranno altre due letture. E se – come pare probabile – non si raggiungerà il quorum dei due terzi in entrambe le Camere, si andrà a referendum. In quel momento, la parola tornerà al popolo. E sarà una sfida culturale e civile, prima ancora che politica.
Ma non possiamo aspettare la primavera. La mobilitazione deve cominciare ora. Serve una rete capillare di comitati, di iniziative pubbliche, di studio, di confronto. Serve spiegare a ogni cittadino che questa non è una battaglia corporativa, ma un conflitto per le garanzie democratiche. Perché la giustizia, quando non è indipendente, non è giustizia per tutti: è potere per pochi.
Questa riforma ha un volto ideologico e una direzione precisa: ridisegnare la giurisdizione in senso gerarchico, conformista, addomesticato. È il progetto di una Repubblica in cui il controllo di legalità sull'operato dei governi diventa un fastidio, e il pubblico ministero un funzionario obbediente. Non è la giustizia che serve all'Italia. È la giustizia che serve al potere.
Ecco perché dobbiamo dire no. Ecco perché dobbiamo farlo insieme. Ecco perché non è ancora finita, e ci sono ancora molte pagine da scrivere. In chiaro, e non in scuro.