Di Giuseppe Caravita su Venerdì, 05 Ottobre 2018
Categoria: Giuseppe Caravita: uno di duecentocinquantamila

A Congresso, a Congresso

Ha inizio il Congresso degli Avvocati. Entrino in scena attori e spettatori.

Posso dire tranquillamente di essere spettatore, anche disincantato. Non ho praticato la politica forense, se non partecipando a discussioni su Facebook. Ho poi scritto un libro "Avvocà, per ora grazie" che ho presentato in quasi 50 località, addirittura a Londra. Non so se questo abbia valenza politica. Per me è stato solo liberatorio e consolatorio. Qualcuno mi considera un incantatore di serpenti, un venditore di libri uno spacciatore di parole, un cantore del sistema che va abbattuto.

Io penso che la definizione più esatta sia "spacciatore di parole": io chiacchiero, tanto. E qualche volta racconto cose condivisibili.

Ma rimango brutto, sporco e cattivo.

Veniamo al Congresso.

L'evento è stato preceduto da qualcosa di maestosamente spaventoso, che mi ha fatto venire in mente Pompei poco prima della spaventosa eruzione del Vesuvio.

Dopo cinque anni di lamentele, battaglie, formazione di associazioni, proteste contro il sistema previdenziale gestito da Cassa Forense secondo le nuove norme professionali, si è andati ad elezioni per scegliere i delegati. Il dato elettorale è stato devastante. Un astensionismo di proporzioni incredibili: il 90 % degli aventi diritto è rimasto a casa. E di questo parleremo tra poco.

Una bastonata terrificante alle nuove associazioni, con numero di voti irrisorio. Faccio notare che ho sentito Colleghi parlare di queste realtà, composte da uomini e donne anche fino a 50 anni, in alcuni casi ampiamente oltre, definendoli "i ragazzi".

Nessuna donna eletta. Alla faccia delle Commissioni per le pari opportunità. Forse una o due, mi correggo.

Qualcuno ha giustificato il "non voto" come scelta politica. Io non sono d'accordo. Il non voto come scelta politica andava espresso, eventualmente, votando scheda bianca. Ma le urne dovevano straboccare.

E questo dimostra semplicemente che siamo un aggregato, e non una comunità.

Questo è il dato. Cosa siamo? Un aggregato da gestire amministrativamente, o una comunità da gestire politicamente?

Se siamo una comunità de gestire politicamente, non credo cha abbiamo trovato la formula giusta. Catania sarà la cartina di tornasole, perché esploderanno le contraddizioni.

Cosa può accomunarci, quando per natura ci scontriamo? Io difendo Tizio e tu difendi Caio: Cosa ci unisce?

Tutto questo in un clima avvelenato da dubbi, sospetti, accuse, giravolte, salti della quaglia. Intendiamoci, ci sono sempre state. Ma questa volta sono sotto gli occhi di tutti.

Soto gli occhi di tutti quegli avvocati che ancora, ad esempio, aspettano, risposte su "Il Dubbio", giornale dalla gestione fallimentare, che nessuno si sogna di dare.

E ancora. La ferocia di certi scontri verbali fa paura. E' incapacità di gestire il contraddittorio? E' volontà di sopraffare? E' scelta politica?

Eppure è materia di tutti i giorni. A me è stato insegnato a ponderare, prima di reagire. Ho imparato che a volte il silenzio è un'arma terribile, e la riflessione la sua alleata. Non bisogna essere inerti, ma prudenti. Invece oggi l'invettiva è la forma preferita di discussione.

Dunque, cosa siamo, aggregato, o comunità?

Di cosa abbiamo bisogno? Di essere inseriti nella Costituzione?

Io non ci credo. Io penso addirittura che potrebbe essere un modo per limitare la nostra libertà.

Seguiamo i lavori del Congresso, e guardiamo al futuro. E' iniziato ieri.

Messaggi correlati