Se questo sito ti piace, puoi dircelo così

Dimensione carattere: +

La disciplina applicabile al licenziamento intimato in violazione dell’art. 2110, co. 2, c.c..

Imagoeconomica_1795584

La massima.

La tutela applicabile al licenziamento intimato prima del superamento del periodo di comporto è quella prevista dall'art. 18 S.L., commi 4 e 7, indipendentemente dal requisito dimensionale del datore di lavoro.

La decisione.

Il 16 settembre scorso la Cassazione, decidendo sul ricorso contro una sentenza della Corte d'Appello di Bologna che, in riforma della decisione di primo grado, aveva rigettato la richiesta di una lavoratrice - licenziata in violazione dell'art. 2110, co. 2 c.c. - finalizzata ad ottenere la condanna della parte datoriale alla reintegra nelle mansioni precedentemente svolte, nonché al risarcimento del danno nella misura fissata dall'art. 18, commi 4 e 7, della L. 300 del 1970, come modificato dalla L. 92 del 2012, ha enunciato il seguente principio di diritto:

"Nel sistema delineato dall'art. 18 della L. n. 300 del 1970, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, il licenziamento intimato in violazione dell'art. 2110, comma 2, c.c., è nullo e le sue conseguenze sono disciplinate, secondo un regime sanzionatorio speciale, dal comma 7, che a sua volta rinvia al co. 4, del medesimo articolo 18, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro".

L'iter argomentativo che ha condotto la suprema Corte ad elaborare tale principio - principio che ha colmato il vuoto interpretativo esistente in ordine alla disciplina applicabile al licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o dagli usi - si presenta di particolare interesse perché fornisce chiare indicazioni non solo su natura e ratio dell'art. 2110, c.c., ma altresì (e soprattutto) sull'ambito di applicazione oggettivo e soggettivo del nuovo sistema delineato dall'art. 18 della L. n. 300 del 1970, così come ridefinito dalla riforma del 2012.

Quanto al primo dei due aspetti, la Cassazione afferma che nell'art. 2110, co. 2, c.c., si rinviene un'astratta predeterminazione (legislativo-contrattuale) del punto di equilibrio fra l'interesse del lavoratore a disporre di un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito di malattia o infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze cagionano all'organizzazione aziendale. A tale articolo, dice la Corte, va, pertanto, riconosciuto carattere imperativo, in quanto finalizzato all'esigenza di tutela della salute, il cui valore è sicuramente prioritario all'interno dell'ordinamento, atteso che l'art. 32 della Costituzione lo definisce come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività. La salute non può, infatti, essere adeguatamente protetta se non all'interno di tempi sicuri entro i quali il lavoratore, ammalatosi o infortunatosi, possa avvalersi delle opportune terapie senza il timore di perdere, nelle more, il posto di lavoro.

Quanto al secondo aspetto, la Corte ha ricordato che l'art. 18 della Legge 300 del 1970 - che nella sua formulazione originaria, prevedeva la tutela reintegratoria (c.d. reale) per le sole ipotesi di licenziamento determinato da ragioni di credo politico o religioso, dall'appartenenza ad un sindacato o dalla partecipazione ad attività sindacali, indipendentemente dalla motivazione adottata - ha natura espansiva e, pertanto, le sue disposizioni sono suscettibili di assicurare la tutela reale del posto di lavoro anche nei casi in cui l'invalidità del licenziamento non dipenda da una delle ragioni specificamente risultanti dal combinato disposto dello stesso art. 18 e dell'art. 604 L. n. 604 del 1966 a condizione, tuttavia, che sia ad esse assimilabili sotto il profilo della identità di ratio.

Dunque, secondo gli Ermellini, in virtù di tale forza espansiva, la tutela reale deve trovare applicazione in tutti i casi in cui il licenziamento debba essere considerato nullo e non già meramente annullabile o temporaneamente inefficace.

Quanto alle limitazioni derivanti dal criterio dimensionale, l'impossibilità di applicare la tutela obbligatoria di cui all'art. 8 L. 604 del 1966 ai licenziamenti nulli, deriverebbe, secondo la Corte, in primis dalla natura stessa della L. 604 del 1966, evidentemente finalizzata a disciplinare esclusivamente i casi di annullamento del licenziamento intimato senza giusta causa o senza giustificato motivo e non anche i casi di nullità, ma è soprattutto facendo riferimento alla disciplina unitaria dei licenziamenti nulli introdotta dalla L. n. 92 del 2012 nel corpo dell'art. 18 S.L. che, secondo quanto desumibile dalla decisione in commento, è possibile trarre argomento per fondare la tesi dell'applicabilità della tutela reale ai licenziamenti nulli al di là del criterio dimensionale.

Come osservato dalla Suprema Corte, infatti, con la riscrittura dell'articolo 18 St. lav. ad opera della legge n. 92 del 2012, anche le ipotesi precedentemente assoggettate al regime delle nullità di diritto comune sono state ricondotte nella previsione dell'articolo 18, comma 1, in forza della clausola che dispone l'applicazione della tutela reale piena, oltre che nelle fattispecie tipizzate dalla norma, anche negli "altri casi di nullità previsti dalla legge" e "quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro".

Il nuovo art. 18, comma 1, infatti, prevede: "Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell'articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell'articolo 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all'articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela a sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell'articolo 1354 del codice civile, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. La presente disposizione si applica anche ai dirigenti […]".

Ai sensi del comma 2 dell'art. 18, nuovo testo, "Il giudice, con la sentenza di cui al primo comma, condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità, stabilendo a tal fine un'indennità commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato inoltre, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali".

Quanto allo specifico caso del licenziamento intimato in violazione dell'art. 2110, comma 2, cod. civ., viziato da nullità, la Corte ha precisato che questo non è compreso nella previsione di cui all'art. 18, comma 1, cit. ma è contemplato nel comma 7 che, nel primo periodo, stabilisce: "Il giudice applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del presente articolo nell'ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68 per motivo oggettivo consistente nell'inidoneità fisica o psichica del lavoratore, ovvero che il licenziamento è stato intimato in violazione dell'articolo 2110, secondo comma, del codice civile".

Secondo quanto si legge nella decisione in commento, il problema interpretativo posto dalla fattispecie in esame, in cui il licenziamento in violazione dell'art. 2110, comma 2, cod. civ. è stato intimato da datore di lavoro privo del requisito dimensionale, è reso particolarmente complesso sia dalla collocazione sistematica nel comma 7, anziché nel comma 1 dell'art. 18, delle conseguenze del licenziamento nullo per mancato superamento del periodo di comporto e sia dal contenuto del comma 8, dell'art. 18 nella versione del 2012.

Tale problema interpretativo è però risolto dalla corte mediante il riferimento alle indicazioni contenute nella sentenza delle S.U. n. 12568 del 2018, in cui è stato affrontato il tema della nullità del licenziamento per mancato superamento del comporto nel vigore della legge n. 92 del 2012.

In modo netto tale pronuncia delle Sezioni Unite ribadisce la nullità del licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto ma anteriormente alla sua scadenza, escludendo in modo esplicito che questo licenziamento sia meramente ingiustificato, tale dovendosi - invece - considerare solo quello che venga intimato mediante enunciazione d'un giustificato motivo o d'una giusta causa che risulti, poi, smentita (in punto di fatto e/o di diritto) all'esito della verifica giudiziale. In continuità con quanto affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza appena citata, la Corte ha ritenuto che la disciplina derogatoria dettata dal comma 7, rispetto alla disciplina generale di cui al primo comma dell'art. 18, attenga unicamente alle conseguenze sanzionatorie del licenziamento intimato in violazione dell'art. 2110, comma 2, cod. civ. che resta qualificabile come nullo e non annullabile. La commistione, all'interno del comma 7, di fattispecie di licenziamento nullo e di licenziamento annullabile e l'espresso rinvio alla disciplina di cui al quarto comma, relativa alla annullabilità del licenziamento, non intaccano la natura giuridica del vizio del recesso per mancato superamento del comporto che deve ritenersi virtualmente incluso nella previsione dell'art. 18, comma 1, eccetto che per il rimedio ripristinatorio individuato, ex lege, nei commi 7 e 4.

Al di là dello speciale regime sanzionatorio applicabile, il licenziamento in violazione dell'art. 2110 cod. civ. resta quindi assoggettato alla disciplina generale del licenziamento nullo le cui conseguenze, per espressa previsione normativa (già l'art. 3 della legge 108 del 1990 ed ora l'art. 18, comma 1, modificato dalla legge 92 del 2012) sono indifferenti al numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, e tale previsione che non è attratta nella deroga disposta, quoad poenam, dal comma 7. D'altra parte, la categoria giuridica della nullità, in quanto volta alla protezione di beni di rilievo costituzionale, è di applicazione generale e non consente diverse articolazioni.Ciò comporta, conclude la Corte, l'irrilevanza, rispetto alla fattispecie di cui si discute, del criterio selettivo basato sul numero dei dipendenti che, se può giustificare livelli diversi di tutela in ipotesi di licenziamento annullabile non può legittimare una diversificazione delle conseguenze del licenziamento nullo.

 

Tutti gli articoli pubblicati in questo portale possono essere riprodotti, in tutto o in parte, solo a condizione che sia indicata la fonte e sia, in ogni caso, riprodotto il link dell'articolo.

Sospensione feriale. Computo del termine lungo di ...
Scuola. Effetti dell'ammissione all'esame di Stato...

Forse potrebbero interessarti anche questi articoli

Cerca nel sito