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La possibilità per un avvocato di poter trattenere somme spettanti al cliente a titolo di compenso liquidato in sentenza, non fa venir meno il dovere di rendiconto che deve, anzi, essere ancor più puntuale e dettagliato proprio in virtù della coesistenza di reciproci rapporti di debito e credito (in tal senso Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 23 gennaio 2017, n. 2)

Torna sulla questione il Consiglio nazionale forense con decisione n. 220del 21 ottobre 2021 (https://www.codicedeontologico-cnf.it/GM/2021-220.pdf).

Ma vediamo il caso sottoposto all'esame del Cnf.

I fatti del procedimento

Al ricorrente è stata comminata la sanzione della sospensione dall'esercizio della professione per 6 (sei) mesi per:

  • aver violato l'art. 30 C.D. (già art. 41 del C.D. precedente), art. 31 (già art. 44 del C.D. precedente) per non aver messo a disposizione della parte assistita le somme riscosse per conto della stessa e non averne reso conto sollecitamente,
  • per aver trattenuto parte delle somme dovute in forza di sentenza del Tribunale.

L'incolpato ha proposto impugnazione avverso il suddetto provvedimento sanzionatorio, precisando, preliminarmente, di essere stato impossibilitato a partecipare tanto all'istruttoria preliminare che a quella dibattimentale per gravi motivi di salute ed eccependo, in secondo luogo, l'insussistenza dell'illecito disciplinare contestato. 

Il caso, così, è giunto dinanzi al Cnf.

Ripercorriamo l'iter logico-giuridico seguito da quest'ultima autorità.

La decisione del Cnf

Dall'esame della documentazione prodotta dalla difesa del ricorrente, secondo il Cnf, risulta che nel giudizio seguito dall'avvocato ricorrente il Tribunale aveva condannato la convenuta, in favore della cliente del ricorrente stesso, al pagamento di una somma pari ad euro 5.000,00, oltre interessi e spese e compensi di lite, quantificati in euro 4.750,00 oltre IVA e CPA. Detta somma è stata corrisposta dalla convenuta con tre assegni consegnati al ricorrente il quale, a sua volta, come emerge dalle risultanze istruttorie, ha provveduto a trasmettere alla propria assistita in un tempo ragionevolmente congruo. Orbene, ad avviso del Cnf, pertanto non sussiste, nel caso di specie, violazione del canone di cui all'art. 31 Codice Deontologico Forense dal momento che detta disposizione sanziona il comportamento dell'avvocato che abbia omesso di mettere immediatamente a disposizione del cliente le somme riscosse da terzi per conto dello stesso. Comportamento, questo, non posto in essere dal ricorrente. Nella questione in esame, le uniche somme effettivamente trattenute dal ricorrente sono state, all'evidenza, quelle corrisposte dalla controparte a titolo di compenso professionale nella misura di quanto stabilito in sentenza, non avendole il ricorrente ancora ricevute dalla parte assistita. Anche per tale condotta, non sussisterebbe violazione del canone di cui all'art. 31, del Codice Deontologico in quanto, la medesima disposizione, al comma 3, prevede espressamente che "l'avvocato ha diritto di trattenere le somme da chiunque ricevute imputandole a titolo di compenso: 

b) quando si tratti di somme liquidate giudizialmente a titolo di compenso a carico della controparte e l'avvocato non le abbia già ricevute dal cliente o dalla parte assistita…". Pertanto, sulla base di quanto sin qui esposto, non può ritenersi raggiunta la prova della violazione dell'obbligo di immediata messa a disposizione del cliente delle somme ricevute nel di lui interesse, di cui all'art. 31 Codice Deontologico vigente, non sussistendo la prova degli elementi integrativi della fattispecie de qua. A parere del Cnf unica violazione posta in essere dal ricorrente sarebbe quella dell'obbligo di rendiconto. E ciò in considerazione del fatto che è vero che l'avvocato può trattenere le somme spettanti al cliente a titolo di compenso liquidato in sentenza, ma è altrettanto vero che il difensore, in tale ipotesi, ha il dovere di rendere conto della coesistenza di reciproci rapporti di debito e credito (in tal senso Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 23 gennaio 2017, n. 2). Ne consegue che, nella questione in esame, l'unico addebito riferibile all'operato del ricorrente sarebbe quello di aver omesso di informare compiutamente il cliente in merito alle operazioni di entrata e di uscita verificatesi per effetto dell'attività svolta, come emerso dalla prova raccolta innanzi al Consiglio Distrettuale di Disciplina. Con l'ovvia conseguenza che:

  • il ricorso dell'avvocato è stato parzialmente accolto con riferimento alla non sussistenza della violazione di cui all'art. 31 Codice Deontologico vigente;
  • è stata confermata la responsabilità dell'incolpato per la violazione di cui all'art. 30 Codice Deontologico vigente, avendo lo stesso omesso di fornire tempestivo e puntale rendiconto circa le operazioni effettuate.

Alla luce di quanto sin qui esposto, pertanto, il Cnf ha riformato la sanzione irrogata e, tenendo conto della mancanza di precedenti disciplinari a carico del ricorrente e del comportamento complessivamente tenuto dallo stesso, ha ritenuto congruo applicare la sanzione edittale della censura in luogo della sanzione della sospensione di mesi sei dall'esercizio della professione.