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I dati della recentissima indagine Demos pubblicati da la Repubblica e commentati stamane da Ilvo Diamanti segnalano un cambiamento profondo nella percezione del Paese riguardo al disegno sulla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri concepito dal Governo. A distanza di appena tre mesi, da febbraio a maggio, il fronte dei contrari alla "riforma" Nordio ha superato quello dei favorevoli: oggi è il 52% degli italiani a esprimere un orientamento contrario, contro il 48% che si dice favorevole. A febbraio, la situazione era rovesciata. Soprattutto se accompagnata ai dati YouTrend, si tratta di una inversione significativa, che riflette la crescente consapevolezza dei cittadini sul vero significato della "riforma" Nordio.

Eppure, a un primo sguardo, questa tendenza sembrerebbe in apparente contrasto con un altro dato dello stesso sondaggio: tra gli elettori dei partiti di destra, il sostegno alla separazione delle carriere è quasi bulgaro – Lega 90%, Fratelli d'Italia 88%, Forza Italia 84% – mentre solo i progressisti e i riformisti si mostrano divisi o contrari (M5S 47%, Verdi e Sinistra 39%, +Europa 54%). Si tratta di dati che, rapportati a quelli assoluti, alimentano, legittimamente, qualche interrogativo. Come spiegare  che, nonostante la netta prevalenza del sì tra le destre, il fronte contrario risulti maggioritario nell'insieme del Paese?

La risposta, a mio parere, è duplice. La prima spiegazione è, per così dire, numerica. I partiti del centrodestra, pur maggioritari in Parlamento, non rappresentano affatto la maggioranza assoluta del corpo elettorale. Se si combinano i dati del consenso alla riforma per partito con il peso elettorale reale di ciascuna forza, si scopre facilmente che il blocco favorevole alla separazione, per quanto ampio, è minoritario rispetto all'insieme del corpo elettorale. Per esempio, il 90% dei leghisti equivale a molto meno in termini assoluti del 47% degli elettori 5 Stelle, che sono più numerosi. La somma ponderata delle opinioni individuali restituisce quindi un risultato diverso da quello delle medie per partito.

Ma c'è una seconda, ben più importante spiegazione, che ha a che vedere con la qualità del consenso. Il fronte del sì è compatto ma ideologico, quasi identitario: per molti elettori di destra, la separazione delle carriere è una battaglia politica contro la magistratura "nemica", la stessa magistratura che in passato ha ostacolato o indagato leader politici di riferimento, a partire da Silvio Berlusconi, al quale non certo a caso il vicepremier Tajani ha dedicato l'approvazione del provvedimento in seconda lettura al Senato. Si tratta di un consenso spesso fondato su slogan – "giudici politicizzati", "pm militanti", "processi mediatici" – più che su una reale comprensione della dimensione di innovazione costituzionale sulla giurisdizione.
Dall'altro lato, il dissenso è più articolato, ma più ragionato. A spingere molti italiani ad allontanarsi dalla riforma non sono infatti riflessi ideologici, ma preoccupazioni concrete: il timore di una giustizia divisa, la percezione del rischio che il pubblico ministero venga sottratto all'autonomia per essere subordinato all'esecutivo, la consapevolezza che si stia minando un equilibrio faticosamente costruito dai Costituenti.

Ciò che emerge con chiarezza dal sondaggio è che la riforma Nordio è una riforma di parte. Lo dicono i numeri. Lo conferma la spaccatura tra gli elettorati, il no della stragrande maggioranza degli studiosi, di insigni avvocari penalisti, della stessa magistratura sostanzialmente all'unisono. E, soprattutto, lo dimostra il fatto che nessuna forza politica progressista o riformista l'ha fatta propria.
In Senato, ha votato a favore Azione, e Italia Viva si è astenuta. Ma si è trattato di scelte parlamentari, non accompagnate da una mobilitazione culturale o da una riflessione pubblica profonda. Nessuno, tra i riformisti, ha provato a costruire intorno a questa riforma una visione organica della giustizia, anche perchè il carattere blindato della stessa lo ha impedito. Se la riforma Nordio fosse davvero priva di un "pregiudizio" politico, si sarebbe dovuta porre, ab imis, come laicamente aperta al contributo delle forze parlamentari, del Csm, della magistratura, e probabilmente avrebbe raccolto un consenso più ampio, senza per questo essere necessariamente meritevole di approvazione.

Invece, ha diviso e divide, in profondità: nel Paese, nei poteri dello Stato, tra giudici e pubblici ministeri, e finanche all'interno della stessa cultura giuridica. È proprio questo il cuore della mia denuncia, nel libro Divide et impera appena uscito: la separazione delle carriere non è una soluzione a un problema reale, ma un espediente politico per alterare gli equilibri della giurisdizione. Divide per comandare, come suggerisce il titolo. Divide la giustizia per renderla meno autonoma. Divide l'ordinamento per far spazio a un nuovo assetto: meno indipendente e più esposto alle pressioni del potere esecutivo.

Il dato Demos del 52% di contrari è quindi un segnale di resistenza civile. È la prova che il dibattito pubblico, se alimentato con rigore e coraggio, può ancora fare la differenza. È l'indizio che una parte crescente dell'opinione pubblica ha capito che il vero rischio della riforma è lo snaturamento della funzione giurisdizionale, una disarticolazione della giustizia che neppure si rifletterebbe in una maggiore efficacia ed efficienza del sistema. E la porta d'ingresso, come quel libro documenta e in qualche modo dimostra, alla subordinazione del pm agli esecutivi pro tempore, se non altro come contromisure allo strapotere di una magistratura requirente dilatata e dilagante. Eterogenesi dei fini, per l'appunto, sebbene apparente.

Riformare si può. Ma non dividendo ciò che la Costituzione ha concepito come unitario. Si può riformare la giustizia rafforzandone l'autonomia, migliorando l'organizzazione, razionalizzando l'accesso alle carriere, promuovendo la trasparenza. Ma senza colpire al cuore il principio fondamentale: che la giustizia, per essere giusta, deve essere libera. Tutta intera, e non a metà.