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C'è un confine sottile tra la lucidità e l'improvvisazione. Carlo Nordio, ministro della Giustizia del Governo Meloni, riesce spesso a collocarsi in quella terra di nessuno in cui le parole dovrebbero orientare un Paese e invece finiscono per disorientarlo. L'ultima occasione è stata il congresso dell'Unione delle Camere penali a Catania, dove il guardasigilli è riuscito in un'impresa quasi proibitiva, quella di superare sè stesso, ricevendo bordate di fischi, più che applausi. Non da piazze ostili, ma da quella platea di avvocati che, per tradizione, è la coscienza critica della giustizia italiana.

Non è difficile capire perché sia accaduto. Quando un Ministro (e non un alieno calato da Marte ma un ex Pm) arriva a dichiarare che non c'è collegamento tra sovraffollamento carcerario e suicidi, ad indignare, prims ancora della battuta, è il cinismo che sottintende. I numeri, le storie, le morti dietro le sbarre gridano da soli la verità. Eppure Nordio liquida la questione con leggerezza, quasi che il dolore umano potesse essere archiviato come un dettaglio tecnico. 

Poi la rivendicazione sul "successo" della norma anti-rave. Nessun processo, nessuna incarcerazione. Ma se una legge serve solo a riempire un vuoto simbolico, senza alcuna ricaduta reale, allora non siamo di fronte a un trionfo, ma alla prova lampante di un panpenalismo malcelato, inefficace e populista.

Neppure il tentativo di tendere la mano agli avvocati ha funzionato. Nordio ha parlato del suo «rammarico» per non essere riuscito a inserire l'avvocato in Costituzione. La risposta che gli è venuta è stata forte e quasi chirurgica: l'avvocato c'è già, da sempre, nell'articolo 24. Non c'era bisogno di ulteriori timbri, semmai di coerenza.

Il capolavoro delle contraddizioni è arrivato sul referendum. Con una mano Nordio ha supplicato tutti di non dargli valore politico; con l'altra ha proclamato che una vittoria del "no" equivarrebbe al trionfo delle procure e a una «Repubblica sottomessa o condizionata dai magistrati». E allora, la domanda è inevitabile: come si può chiedere serenità e compostezza quando si agita lo spettro di una "Repubblica dei pm"? La verità è che Nordio invoca neutralità mentre avvelena il dibattito con categorie binarie e slogan da campagna elettorale. Nemmeno la stoccata al procuratore Nicola Gratteri ha salvato la scena. Secondo Nordio, il pm avrebbe piena libertà di parola, anzi la sua presenza televisiva sarebbe la dimostrazione che la separazione delle carriere è già in atto. Ma se la sua riforma si riduce a interpretare una comparsa televisiva come prova di un principio costituzionale, siamo davvero all'impoverimento del pensiero giuridico.

Nordio si era presentato come il "ministro liberale", il giurista delle garanzie. Oggi appare come il custode di contraddizioni irrisolte, prigioniero di una retorica che lo avvicina più al politico di piazza che al riformatore serio. Se questo è un ministro, allora la giustizia italiana merita di più. Merita meno slogan e più sostanza, meno contrapposizioni e più ascolto, meno proclami e più riforme vere. Perché la giustizia non è un'arena in cui mettere all'angolo i magistrati o blandire gli avvocati. È il fondamento stesso di una democrazia matura, e non può sopravvivere a chi la riduce a campo di battaglia personale.