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Ci sono momenti nella storia in cui non è più possibile restare a guardare, nè girarsi dall'altra parte, e ancor di più nascondersi dietro le liturgie dell'equidistanza diplomatica o le ambiguità della realpolitik. Il grido lanciato dai 35 ambasciatori italiani — nomi che hanno servito la Repubblica nelle più alte sedi istituzionali, in Europa, nella Nato, al Quirinale, a Palazzo Chigi, nelle principali capitali del mondo — è un appello alla coscienza più profonda del nostro Paese. E la loro richiesta, autorevolissima, che il Governo dica da che parte sta l'Italia, merita una risposta chiara. Hic Rhodus, hic salta.

"Ci sono momenti nella storia in cui non sono più possibili ambiguità né collocazioni intermedie", scrivono. E non si può che dar loro ragione. Perché se "non è ancora il momento" nonostante tutto ciò che sta ancora accadendo a Gaza con lo strame del diritto umanitario e internazionale, e dei limiti imposti dalla legge di guerra, allora quando potrebbe esserlo? Di fronte alla distruzione scientifica, inarrestabile di una popolazione civile, non si può più accettare il ripiegamento in una sorta di diplomazia dell'attesa. Ogni giorno che passa — ogni giorno in cui non si agisce — è un giorno in cui l'orrore si fa normalità. In cui la morte dei neonati sotto le macerie non scuote più la coscienza di un Paese, e la sua dignità.

Gli ex ambasciatori parlano di "crimini contro l'umanità", "violazioni flagranti della dignità umana", "inosservanza costante della legalità internazionale". E dicono qualcosa di ancor più pesante: che di questi crimini, come avviene per ogni governo, anche il governo israeliano dovrà rispondere. È un'affermazione tanto grave quanto fondata. Perché la giustizia internazionale non può essere instrumentum principis, nelle mani del più forte. Oppure abbiamo tutti barato, e dobbiamo allora riconoscere di essere cittadini di Stati del disonore. Perchè è sul quel "mai più" pronunciato mani sul petto e occhi rivolti al cielo, su quella promessa — e su quella sfida — che si è costruito l'ordine mondiale dopo Auschwitz, dopo Hiroshima, dopo Srebrenica. Èd è stato questo l'impegno che ancora oggi distingue la civiltà dalla barbarie.

Di fronte a questa dichiarazione limpida e coraggiosa, il silenzio della maggioranza di governo suona come indifferenza. Il "non è il momento", pronunciato da Giorgia Meloni per giustificare il no al riconoscimento dello Stato di Palestina, è l'ignavia di chi non vuole vedere. Ma se non ora, quando? Quando non ci sarà più nessuno da riconoscere? Quando anche l'ultimo ospedale sarà ridotto in cenere e l'ultima madre avrà seppellito l'ultimo figlio?

Il riconoscimento della Palestina non è un premio ad Hamas, perchè la barbarie del 7 ottobre, che non tollera scuse o attenuanti, non è in discussione, nè potrebbe esserlo. È invece il segno che il diritto sopravvive alla distruzione. È il solo modo — simbolico e politico — che l'Italia ha per dire: noi non ci stiamo. Noi non accettiamo che il diritto internazionale venga calpestato con tale impunità. Noi scegliamo la pace, ma una pace giusta. Che nasce solo dal riconoscimento reciproco, dalla dignità uguale per tutti i popoli. Che è anche l'appello che sale dal cuore dell'umanità, dalla quasi totalità dei Paesi rappresentati all'ONU, dai leaders religiosi, da Papa Leone, sulle orme di Papa Francesco.

L'appello dei diplomatici non è un atto politico, ma rimane un atto d'accusa. È una sfida al Governo: scegliete. È una sfida al Parlamento: assumetevi la responsabilità. È una sfida a ciascuno di noi, cittadini, avvocati, studiosi, operatori dell'informazione, credenti e non credenti: restiamo umani, anche quando è difficile, soprattutto quando è impopolare. C'è una linea che separa la prudenza dalla codardia e l'equilibrio dalla complicità.. In questo momento, quella linea passa per Gaza, e passa per Roma, dove si deciderà se l'Italia sarà Paese di diritto o di silenzio, di giustizia o di.indifferenza. E, lasciatemi dire, di dignità o di vergogna.