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C'è un confine sottile eppure invalicabile tra la riforma di un sistema e la sua integrale demolizione. La separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, così come voluta dal governo Meloni, non è una riforma. In altre mie precedenti riflessioni l'ho chiamata, semmai, controriforma, ma non basta. Perchè si tratta di un disegno ideologico, che mina alla radice l'equilibrio costituzionale, e che, dietro l'illusione di un riequilibrio, nasconde, in realtà, la volontà di sottomettere l'azione penale e l'autonomia della magistratura al potere politico.

Lo ha confermato il 30 luglio, in una riflessione pubblicata ne Il Dubbio, con la consueta chiarezza e con la forza che deriva dall'autorevolezza, Raffaele Cantone, Procuratore della Repubblica di Perugia, già Presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione: «La magistratura deve restare unica: così si rischia di creare un super-PM». Cantone ha colto il cuore del problema. Separare i Consigli Superiori, sganciare i pubblici ministeri dai giudici, costruire carriere parallele significa rompere l'unità della giurisdizione e con essa la garanzia di imparzialità del sistema penale. È l'architettura che consente oggi alla giustizia di essere libera da ogni potere, non asservita a qualsiasi potere.

Nel mio libro, "Divide et impera: la separazione delle carriere e i rischi di eterogenesi dei fini", ho ricostruito con precisione i nodi di una riforma che non ha nulla di neutro, e di neutrale. La separazione delle carriere non nasce per migliorare l'efficienza dei processi o accorciare i tempi della giustizia. Nasce — e Cantone lo conferma con limpidezza — da una volontà esplicita o implicita di indebolire la magistratura ordinaria. È lo stesso allarme che aveva già lanciato il Procuratore nazionale antimafia Melillo alcuni giorni fa, ed è ciò che, inascoltati, hanno denunciato i magistrati in ogni sede, parlamentare ed extraparlamentare, le loro associazioni, ANM in primis, e financo il CSM, e a questi spunti io stesso ho dedicato un intero capitolo.di quel libro. È l'eterogenesi dei fini: nel nome dell'equilibrio tra accusa e difesa, si costruisce un pubblico ministero più potente, più isolato, più autoreferenziale, privo del contrappeso rappresentato dal confronto con i giudici nell'attuale Consiglio Superiore della Magistratura, per poi assoggettarlo al potere politico.Questo è lo scenario: un pubblico ministero formalmente indipendente, ma nella sostanza funzionalizzato al potere esecutivo. È questo il modello che vogliamo? È questa la giustizia che i cittadini meritano?

La Costituzione del 1948 — e qui risiede tutta la sua modernità — non ha separato le carriere perché i Costituenti erano consapevoli che solo l'unitarietà della funzione giurisdizionale avrebbe garantito un equilibrio interno, culturale e ordinamentale, tra requirenti e giudicanti. Non è un caso che il sistema abbia saputo resistere agli attacchi della mafia, della corruzione, dei poteri occulti. Se ciò è accaduto, è anche perchè PM e giudici, sono stati parte di un corpo unico.

Infrangere, adesso, questa unità è un atto politico che, sotto la maschera dell'efficienza, cerca di normalizzare la giurisdizione. E quando la giustizia viene normalizzata dal potere politico, non è più giustizia: è terreno di governo. Raffaele Cantone, nella sua intervista al Dubbio, ha ricordato che la degenerazione delle correnti va curata, non gestita come pretesto per decspitare la giurisdizione. Ha indicato la necessità di un'autocritica seria della magistratura. Ma ha anche messo in guardia da chi, fingendo di volerla migliorare, la vuole in realtà delegittimare. E ha detto chiaramente che l'indipendenza non si protegge con il sorteggio o la separazione, ma con la cultura delle garanzie, con l'equilibrio, con le risorse per il sistema giudiziario, con la trasparenza dell'azione.

E allora sì, oggi serve parlare al cuore dei cittadini. Di chi ha visto le proprie comunità, i propri territori, cambiati, redtituiti alla democrazia e alla legalità da magistrati coraggiosi. Di chi ha perso fiducia in alcuni politici, ma spera ancora nella giustizia. Di chi sa che la democrazia si può uccidere un giorno alla volta, con parole d'ordine rassicuranti ma esiti devastanti. A loro diciamo: questa riforma è un passo verso il controllo politico dell'azione penale e verso l'autoritarismo giudiziario. È un disegno ai limiti dell'eversione costituzionale. Non possiamo permetterlo, e non possiamo permettere che lo Stato di diritto muoia in silenzio. Sta a noi impedirlo. Sta a noi aprire il grande libro che è la Costituzione, ricordare il sangue con il quale è stato scritto, e tenere accesa la luce.