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Con la sentenza n. 24653 dello scorso 3 giugno, la III sezione penale della Cassazione ha confermato l'applicazione della misura cautelare dell'interdizione dall'esercizio della professione medica inflitta ad un medico di guardia che dovendo visitare una ragazza giunta presso la struttura ospedaliera per un forte dolore alle gambe – la costringeva a subire atti sessuali, effettuando una visita ginecologica nonostante l'espresso diniego della vittima.

Per tali fatti, il Tribunale di Napoli, ritenuta la sussistenza di gravi elementi indiziari e delle esigenze cautelari in ordine al reato di cui all'art. 609 bis c.p., applicava all'indagato la misura cautelare dell'interdizione totale dall'esercizio della professione medica, in ambito sia pubblico che privato, per la durata massima di 12 mesi.

La difesa del sanitario, ricorrendo in Cassazione, censurava vizio di motivazione e la violazione di legge con riferimento alla ritenuta sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza.

In particolare, il medico si doleva in quanto la sentenza impugnata non aveva considerato che, se davvero ci fosse stata la condotta penetrativa descritta dalla persona offesa, ancora vergine, sarebbero rimaste alcune evidenze cliniche non riscontrate durante la visita ginecologica successivamente eseguita; inoltre, la stessa penetrazione sarebbe stata estremamente difficoltosa da attuarsi, considerato lo stato dei luoghi e gli abiti aderenti indossati dalla persona offesa.

Eccepiva, ancora, l'inattendibilità delle dichiarazioni della querelante, in quanto contraddittorie e incompatibili con i comportamenti tenuti con i familiari dopo l'asserita violenza, ribadendo come la vittima non aveva manifestato il suo dissenso neppure quando il medico aveva iniziato a visitarla. 

 Infine, il sanitario eccepiva violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari, rilevando come il Tribunale aveva omesso di motivare in ordine alla ritenuta necessità di estendere la misura cautelare anche allo svolgimento dell'attività privata (laddove i presunti fatti di reato si erano svolti durante lo svolgimento dell'attività pubblica) e di applicare la stessa per la durata massima di dodici mesi.

La Cassazione non condivide le censure formulate dall'imputato.

In relazione alla contestazione relativa alla ritenuta sussistenza di gravi indizi di colpevolezza, la Cassazione evidenzia come la censura formulata sia volta ad ottenere una rivalutazione di elementi già presi adeguatamente in considerazione dai giudici di secondo grado, senza offrire elementi puntuali, precisi e di immediata valenza esplicativa tali da dimostrare un'effettiva carenza motivazionale su punti decisivi del gravame.

Così formulato, il motivo di ricorso è inammissibile, posto che il controllo sulla motivazione operato dal giudice di legittimità resta circoscritto al solo accertamento sulla congruità e coerenza dell'apparato argomentativo e non può risolversi in una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o nella scelta di nuovi e diversi criteri di giudizio.

Nel caso di specie, invece, le censure non evidenziano alcuna lacuna motivazionale o illogicità della sentenza impugnata, la quale, piuttosto, analizza correttamente tutti gli elementi avanzati dall'accusa.

In particolare, la Corte rileva come correttamente il Tribunale ha ritenuto che l'assenza di lacerazioni interne era da imputarsi alle modalità della condotta, tradottasi nella penetrazione vaginale con le dita, non violenta e durata poco tempo, a causa dell'immediato diniego manifestato dalla vittima; parimenti corretta è l'argomentazione relativa al profilo degli indumenti indossati dalla ragazza, non così stretti da impedire la visita; in relazione alla piena attendibilità del racconto della persona offesa, si è evidenziato come le dichiarazioni rese dalla stessa siano rimaste lineari ed immutate nel tempo e siano state confermate dalle risultanze della visita ginecologica effettuata dopo lo svolgimento dei fatti.

In merito all'assenza di consenso della vittima allo svolgimento della visita ginecologica, gli Ermellini chiariscono come il momento della manifestazione del dissenso non deve ricercarsi nella fase antecedente alla visita bensì nel momento in cui la ragazza, prima convinta della competenza e professionalità del sanitario, aveva percepito l'anomalia della sua condotta in relazione ai dolori lamentati e si era dunque ribellata alla prosecuzione dell'esame ginecologico, subendo, per questa ragione, un' ulteriore azione violenta.

Da ultimo, la Corte conferma la corretta valutazione dell'ordinanza in relazione alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari, posto che il medico – a prescindere dalla circostanza che non sia specialista in ginecologia – si ritroverebbe nella possibilità di porre nuovamente in essere le condotte di violenza, dal momento che svolge l'attività medica ed è costantemente a contatto con pazienti di ogni età.

In conclusione la Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.