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In virtù di quanto previsto dall'art. 25 Codice deontologico forense, l'avvocato può pattuire con il proprio cliente il compenso. Tale disposizione si coordina con l'art. 2233 c.c., che prevede una gerarchia nella determinazione del compenso dei prestatori d'opera intellettuale (tra cui rientrano gli avvocati), nel senso che l'accordo tra le parti sul compenso prevale sulle tariffe professionali. Ma cosa accade se l'accordo con la parte assistita prevede un compenso di misura superiore a quella stabilita dai parametri?

In punto è intervenuta la Corte di Cassazione, con ordinanza n. 2631 del 4 febbraio 2021.

Vediamo nel dettaglio la questione sottoposta all'esame dei Giudici di legittimità.

I fatti di causa

Il ricorrente ha agito in giudizio contro il suo avvocato, chiedendo i) di far dichiarare nulla e inefficace inter partes la scrittura privata avente ad oggetto la pattuizione del compenso; ii) la rideterminazione di detto compenso. In particolare, il ricorrente deduce che lui e il fratello, per la causa in cui sono stati assistiti dall'avvocato chiamato in causa, hanno sottoscritto con il professionista una scrittura privata pattuendo un compenso a percentuale. Successivamente le parti hanno espressamente convenuto l'importo delle competenze in favore dell'avvocato in un importo determinato, dapprima telefonicamente e successivamente con un accordo formalizzato con scrittura privata, con l'effetto di privare di valenza il precedente accordo. 

A dir del ricorrente il primo accordo è illegittimo in quanto contenente un patto di quota lite; il secondo perché stabilisce un compenso di importo sproporzionato rispetto all'attività forense svolta dal professionista. In primo grado, il Tribunale, ritenendo che il primo accordo non contenesse un patto di quota lite (dovendosi interpretare la corresponsione di una percentuale sull'esito come palmario), ha rigettato la domanda attorea, Ma vi è più, il Giudice di prime cure ha ritenuto tale accordo superato dalla seconda scrittura privata, reputata altrettanto legittima. La decisione del Tribunale è stata confermata dalla Corte d'appello.

Così il caso è giunto dinanzi alla Corte di Cassazione.

Ripercorriamo l'iter logico-giuridico seguito da quest'ultima autorità giudiziaria.

La decisione della Suprema Corte

Innanzitutto appare opportuno far rilevare che in forza dell'art. 2233 c.c. la determinazione dei compensi dei prestatori d'opera intellettuale segue una gerarchia di carattere preferenziale. In buona sostanza, se vi è accordo tra le parti prevale detto accordo. In mancanza prevalgono le tariffe professionali, ovvero gli usi: le pattuizioni tra le parti risultano dunque preminenti su ogni altro criterio di liquidazione (Cass., Sez. II, 23 maggio 2000, n. 6732; Cass., Sez. VI-2, 29 dicembre 2011, n. 29837; Cass., Sez. III, 6 luglio 2018, n. 17726) e il compenso va determinato in base alla tariffa ed adeguato all'importanza dell'opera soltanto in mancanza di convenzione.

Con riferimento ai compensi dell'avvocato, la Corte di cassazione richiama quell'orientamento secondo cui devono ritenersi validi gli accordi stipulati tra gli avvocati e i clienti anche se prevedono un compenso superiore ai massimi stabiliti dai parametri forensi (Cass., Sez. II, 5 luglio 1990, n. 7051; Cass., Sez. II, 10 ottobre 2018, n. 25054). 

E ciò in considerazione del fatto che vige, nel nostro ordinamento, il principio di ammissibilità e validità di convenzioni aventi ad oggetto i compensi dovuti dai clienti agli avvocati, anche con previsione di misure eccedenti quelle previste dalle tariffe forensi (cfr. Cass., Sez. Un., 26 febbraio 1999, n. 103). D'altra parte, la misura del compenso dovuta dal cliente al proprio avvocato prescinde dalle statuizioni del giudice contenute nella sentenza che condanna la controparte alle spese e agli onorari di causa e deve essere determinata in base a criteri diversi da quelli che regolano la liquidazione delle spese fra le parti, in ragione del diverso fondamento dell'obbligo di pagamento degli onorari, che riposa, per il cliente, nel contratto di prestazione d'opera, e, per la parte soccombente, nel principio di causalità e dell'inefficacia nei confronti dell'avvocato della sentenza che ha provveduto alla liquidazione delle spese, in quanto non parte del giudizio (Cass., Sez. VI-2, 17 ottobre 2018, n. 25992). Proprio in base a queste considerazioni e, partendo, dall'esame dell'art. 2233 c.c., i Giudici di merito, hanno ritenuto l'accordo stipulato dalle parti oggetto di contestazione come valido ed efficace, in quanto espressione dell'autonomia negoziale delle parti stesse. Questo, conseguentemente, ha impedito ai medesimi Giudici di intervenire in senso modificativo perché un intervento in tal senso avrebbe costituito un'ingerenza su una previsione che costituisce appunto espressione dell'autonomia negoziale delle parti. Alla luce di tanto, quindi, la Corte di cassazione ha reputato infondate le doglianze del ricorrente e ha rigettato l'impugnazione.