C'è un silenzio che talvolta pesa molto più delle parole. È quello che ha accompagnato, oggi, il voto della Camera dei deputati che ha negato l'autorizzazione a procedere nei confronti di tre ministri della Repubblica - Carlo Nordio, Matteo Piantedosi e Alfredo Mantovano - per il caso Almasri.

Tre nomi noti, tre figure di vertice di un governo che, a parole, fa della legalità e dell'ordine il proprio vessillo politico. Eppure, dinanzi a un voto che riguardava la possibile commissione di reati come favoreggiamento, omissione di atti d'ufficio e persino peculato aggravato, la maggioranza dell'Aula si è chiusa in un silenzio quasi complice: nessuna voce di dissenso, nessuna indignazione.

L'art. 96 della Costituzione non è una clausola di privilegio, ma di equilibrio costituzionale. Serve a proteggere la libertà dei membri del Governo da accuse strumentali, ma al tempo stesso afferma chiaramente - a contrariis - che nessun potere, nemmeno quello esecutivo, può essere legibus solitus, sciolto nello specifico dal dovere di rispondere dei propri atti. Si tratta di un confine sottile, tracciato dai Costituenti con la consapevolezza che la libertà di chi governa può vivere solo convivendo con la responsabilità di chi è governato.

E invece oggi il confine è stato cancellato con un gesto di indifferenza, di inerzia tanto più censurabile in quanto preannunciata.. il Parlamento, che avrebbe dovuto interrogarsi sul senso di quella tutela, ha scelto infatti la via più comoda: la solidarietà di parte, l'appartenenza ad uno schieramento a prevalere sull'autonomia della coscienza, l'arroganza di un potere che si difende chiudendosi a riccio, arroccandosi. È un segno dei tempi, che deve farci riflettere tutti: l'etica delle istituzioni può dissolversi anche senza colpi di mano, ma semplicemente con una consegna di silenzio.

La vicenda Almasri poneva una domanda semplice e tremenda al tempo stesso: il Governo può violare la legge in nome della ragion di Stato? Il Tribunale dei ministri si era posto la questione, aveva escluso alcune responsabilità, aveva ritenuto necessario un approfondimento per altre. La Presidente del Consiglio aveva - impropriamente, perchè in sfregio alla separazione tra i poteri - chiamato alle armi rispondendo alla domanda: sì, può, se lo decide la maggioranza. La decisione della Camera, ne è stata la conseguenza. Eppure, la Costituzione continua a ricordarci che la legge è il limite del potere, non il suo strumento.

C'è una forma di corruzione più sottile di quella che si misura con il denaro: è la corruzione della coscienza civile, quella che rende accettabile ciò che dovrebbe indignare. Quando la Repubblica smette di sentire il dovere morale di discutere, di pretendere trasparenza, di chiedere conto a chi governa, il diritto perde il suo fondamento. E se la società tace, se l'università tace, se la stampa tace, allora non siamo più una comunità di diritto ma un insieme di sudditi che hanno smesso di credere nella forza della giustizia. Il voto di oggi non chiude allora una vicenda giudiziaria, o una sua fase. Piuttosto, apre una ferita perchè mina la credibilità dello Stato. La mina perché un Paese che rinuncia a chiedere conto ai suoi ministri, che non pretende verità ma si difende senza neppure esporre i propri argomenti con la forza dei numeri, è un Paese che ha smarrito il senso del limite, che si è chiamato fuori dalla Costituzione perchè non può esserci legalità costituzionale senza limite, né libertà senza responsabilità.

Il diritto non può vivere tra l'indifferenza e il calcolo politico. O si alimenta dalla coscienza viva che parla, interroga, resiste - e si fa esso stesso coscienza - oppure diventa complice silenzioso del potere. Ecco, oggi, nel silenzio generale, il Parlamento ha scelto la seconda strada. Ma la Repubblica, quella dei cittadini e della Costituzione, ha ancora il dovere di scegliere la prima.