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Con la pronuncia del 22 settembre 2020 n. 34625, la Corte di cassazione è tornata ad affrontare il tema delle modalità operative e dei limiti del sequestro probatorio di materiale informatico e telematico. Generalmente L' autorità giudiziaria può far estrarre copia degli atti e dei documenti sequestrati, restituendo gli originali, e , quando il sequestro di questi è mantenuto, può autorizzare la cancelleria o la segreteria a rilasciare gratuitamente copia autentica a coloro che li detenevano legittimamente; quando non è necessario mantenere il sequestro a fini di prova, le cose sequestrate sono restituite a chi ne abbia diritto, anche prima della sentenza. Se occorre, l' autorità giudiziaria prescrive di presentare a ogni richiesta le cose restituite e a tal fine può imporre cauzione.

Segnatamente, i giudici di legittimità hanno affermato che, qualora il sequestro sia realizzato attraverso l'ablazione fisica delle memorie, dapprima occorre creare una copia integrale del contenuto della strumentazione appresa, funzionale alla restituzione di quest'ultima al legittimo titolare. 

Successivamente, la copia integrale così ottenuta va sottoposta ad analisi per selezionare i contenuti informativi pertinenti al reato per cui si procede. All'esito di tale selezione, la copia integrale dev'essere restituita agli aventi diritto, giacché essa non rileva, di per sé, quale cosa pertinente al reato, trattandosi di «un insieme di dati indistinti e magmatici». Il Pubblico Ministero può trattenere la copia integrale soltanto per il tempo strettamente necessario all'operazione di selezione, dovendo, poi, successivamente predisporre un'adeguata organizzazione per compiere tale attività nel più breve tempo possibile. 

La vicenda in esame prende le mosse da un'indagine che ha avuto vasta eco mediatica, avendo coinvolto figure di primo piano della politica nazionale. 

Limitando i cenni alle sole informazioni necessarie per delineare compiutamente la questione giuridica sottoposta allo scrutinio della Corte di cassazione, la Procura della Repubblica di Firenze, nell'ambito di un'attività investigativa volta ad accertare i reati di finanziamento illecito ai partiti e di traffico di influenze illecite di cui si sarebbe reso responsabile il presidente di una fondazione, disponeva la perquisizione e il successivo sequestro probatorio di telefoni cellulari, personal computer portatili, dispositivi informatici e chiavette USB in uso a finanziatori della fondazione medesima, estranei alle indagini, al fine  di approfondire i rapporti intercorrenti tra questi e il presidente della fondazione. 

Di particolare interesse sono le modalità tecniche di analisi dei dati informatici predisposte nel caso di specie dal Pubblico Ministero. Una volta sequestrate "fisicamente" le attrezzature informatiche, la pubblica accusa inizialmente incaricava un consulente tecnico affinché procedesse alla duplicazione dei supporti informatici, selezionando il materiale ritenuto probatoriamente rilevante rispetto ai reati contestati.

Tempestivamente impugnato dalle persone a cui le res informatiche erano state sequestrate, il provvedimento ablativo era confermato dal Tribunale della libertà di Firenze.

Pertanto, i ricorrenti adivano la Corte di cassazione, lamentando, in estrema sintesi, l'illegittimità del decreto sotto il profilo della mancanza del nesso di pertinenzialità tra la strumentazione informatica appresa e i reati per cui si procede, in uno con la violazione dei principi di adeguatezza e proporzionalità che necessariamente devono improntare ogni misura ablativa reale.

Inoltre, si eccepiva l'assoluta genericità delle chiavi di ricerca individuate dalla pubblica accusa al fine di delimitare il provvedimento di sequestro, il quale sarebbe stato, al contrario, impiegato quale indebito mezzo di reperimento di nuove notitiae criminis. Da ultimo, si evidenziava la mancata restituzione del duplicato informatico contenente la totalità dei file appresi, a ulteriore dimostrazione della finalità esplorativa del mezzo di ricerca della prova.