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 E' la prima raccolta di poesie di Francesco Miceli, "Il tempo breve" ed è stata pubblicata nel dicembre del 1998. Ha ha conosciuto un percorso quasi privato. E trova in ciò una motivazione di questa mia nota.

Quell'opera prima contiene 81 poesie che coprono un arco di tempo che va dal 1942 al 1989. Una raccolta che potrebbe benissimo compendiare il concetto che Claudio Magris ha espresso in una trasmissione culturale della Televisione della Svizzera Italiana, qualche anno fa: "Scrivere è una lotta contro l'oblio, scrivere per ricordare, per non lasciar cadere nella dimenticanza il nostro passato".

"Un tempo breve", quindi, per ricordare e per testimoniare. Anche se, leggendo quelle poesie, si coglie la sensazione, si palpa l'emozione dei tempi lunghi della progettualità, dei ripensamenti, del magma affettivo, della memoria su cui nascono e di cui si nutrono le liriche di quella raccolta.

Francesco Miceli è un superstite, come altri sui coetanei, della generazione dei ventenni degli Anni Quaranta del secolo scorso, come Mario Gori, suo sodale. Ha capito che bisognava lasciare, in qualche modo, una scheggia, una traccia, possibilmente senza alzare il tono della voce, di quella esistenza e di quel mondo, magari ricoprendo il ruolo, a lui molto congeniale, della "voce fuori dal coro". E l'ha fatto con l'unico modo a sua disposizione: scrivendo e dipingendo.

Viene in suo soccorso il drammaturgo Eugenio Jonesco quando afferma: "Mi trovo in una foresta vergine e la esploro. La pittura e la scrittura sono dei mezzi di esplorazione". Scrittura e pittura, strumenti delicati, che Francesco Miceli conosce molto bene.

In questo lavoro si nota una scrittura immediata, chiara, concisa, grazie all'uso di un lessico non ricercato, ma semanticamente onnicomprensivo, all'uso di grammatiche e sintassi che rendono scorrevole la lettura.

Sono le riflessioni, le metafore, i messaggi, drammatici, tristi, intrisi di un meditato scetticismo che inducono il lettore alla rilettura. Una rilettura salutare che ci aiuta a scoprire, in un percorso tinto di benevole complicità, di sempre nuove scoperte.

 In queste poesie c'è una "sinfonia", che rappresenta la base, testuale, ritmica, musicale che le percorre. Una "sinfonia" coeva, temporalmente, alle difficoltà, ai drammi, alle imprese, alle tragedie che l'uomo ha dovuto, e deve quotidianamente, affrontare.

Importante, ci sembra, per capire e contestualizzare l'opera di Miceli, qualche riferimento biografico.

Nasce a Niscemi, in provincia di Caltanissetta, nel 1924, dove frequenta le scuole elementari e medie. Dopo le scuole tecniche a Caltagirone, frequenta la scuola magistrale a Piazza Armerina,.

Dopo il diploma magistrale, inizia il viaggio, il vagabondare da una Regione all'altra: dalla Sicilia alla Lombardia, dalla Calabria alla Campania all'Abruzzo.

Iniziano le esperienze che, più tardi, Miceli affida alle sue poesie-racconti, alle sue liriche-sensazioni ed emozioni, ai suoi componimenti simboli con cui rappresenta luoghi ed ambienti; costruisce paesaggi; delinea psicologie di personaggi che si muoveranno, come delicate figure, cariche di dolori e di sofferenze nel teatrino di una quotidianità contraddittoria e piena di paradossi.

"Sono stanco della tua casa, / del sole che la illumina / sempre da un lato. / Chi vive di miseria ha desideri forti. (…) Voglio morire lontano / desiderando il tuo volto.". Sono versi della poesia dedicata alla madre nel 1942.

E il ritorno alla madre, Miceli, lo vive almeno per altre due volte, in maniera intensa e disperata.

La prima volta quando, nel 1950, Miceli rimane vedovo della prima moglie, Angela Virginia, e rimane solo con il figlioletto Claudio, che morirà tragicamente nel 1978 a seguito di un incidente.

Miceli ritorna a Niscemi e la madre si prende cura del figlioletto.

La seconda volta, quando Claudio muore e Miceli lo affida idealmente alla madre già defunta, con un "Messaggio di pianto", nel 1980: "Madre che lo cullavi dolcemente / trent'anni addietro (te ne andasti prima - / greve di mali e di vecchiaia / quel nostro giovane figlio / che mi esortavi sempre a compatire / quell'ingenuo ragazzo sventurato, / quel nostro Claudio rotto / nel corpo giovane e bello / più non guarì, / più non uscì dal coma".

 Ma il viaggio di Miceli oltre lo stretto di Messina, lo porta a vivere esperienze, quasi sconosciute, non solo a Niscemi, ma in Sicilia. Il fascismo e la resistenza furono fenomeni quasi esclusivamente continentali. Miceli aveva già fatto le sue scelte per essere stato presente, e vicino, alle lotte dei contadini. Ma sarà al Nord che prenderà coscienza politica di tutto ciò che era successo in Italia dal 1922 in avanti.

"Sotto i fili del salice piangente / la vaporiera sventrata / guarda in eterno con pupille foracchiate / il groviglio di pioppi nella piana, / gli arbusti brinati sulle siepi: / tutta Rovigo è sotto i partigiani: l'odiato nazista è fuggito", da "Stazione morta", 1945.

E nel 1983, con la poesia "Quando smemoro in contrade tranquille" ricorda i tempi della gioventù: "Il venticinque aprile mi trovò / affamato maestrino ad Acquaviva / e antifascista convinto. / Eran cadute le illusioni folli; / il separatismo isolano / covava assurde rivincite, / latifondisti tenaci / sognavano assoluti poteri / conniventi a banditi feroci: e fu Portella della Ginestra".

E per concludere ci sembra interessante il rapporto che Miceli ha, da sempre, con la parola dai dignitosi e semantici significati, parole come pietre, che acquistano il significato di macigni.

"E cerchi ferro per esorcizzare / misurate parole di prudenza / che m'escono da labbra abituate / a dire verità di vita" in "Ecce homo", 1989;

"Bisogno ho pazzo di versi / come del pane che nutre" in "Bisogno", 1942;

"Come del nostro annaspare / (…) resta memoria di versi" in "Memoria", del 1944;

"So parole, a che cosa ancorare / il mio lucido specchio di ricordi. (…) Questo tranquillamente posso dire: / il mio è un testamento di parole" in "Parole", 1945.