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Con la pronuncia n. 20885, la Cassazione ritorna a pronunciarsi sull'inadempimento del sanitario che non fornisca al paziente un adeguato consenso informato sulle terapie da praticare, precisando che per ottenere "il risarcimento del danno derivante dalla lesione del diritto all'autodeterminazione presupposto comunque indispensabile è che l'intervento si ponga in correlazione causale con le sofferenze patite".

I chiarimenti operati dalla Cassazione prendono spunto dalla richiesta di risarcimento danni avanzata da un uomo che, rivolgendosi ad un medico per ottenere una riduzione dell'ipermetropia, veniva sottoposto dal sanitario a plurimi interventi di chirurgia laser al seguito dei quali la sua vista risultava peggiorata; chiedeva, pertanto, accertarsi la responsabilità del sanitario per violazione dell'obbligo del consenso informato.

Sia il Tribunale di Nola che la Corte d'appello di Napoli rigettavano la domanda, evidenziando come nel caso di specie si era in presenza di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito in base alle regole dell'arte, dal quale erano tuttavia derivate conseguenze dannose per la salute: in siffatta situazione, in mancanza di una adeguata informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili, il medico poteva essere chiamato a risarcire il danno solo se il paziente avesse dimostrato, anche tramite presunzioni, che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l'intervento, non potendo altrimenti ricondursi all'inadempimento dell'obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute. 

Ricorrendo in Cassazione, il paziente denunciava l'erroneità della decisione impugnata nella parte in cui affermava che, per ravvisare il nesso causale tra lesione del diritto all'autodeterminazione e danno, il paziente doveva provare che, ove fosse stato compiutamente informato, avrebbe rifiutato l'intervento; di contro, sosteneva che, nel caso di specie, assumesse rilievo solo la mancata informazione dei rischi dell'operazione.

Inoltre il ricorrente rilevava come l'intervento – contrariamente a quanto riferito dalla corte di merito – non era indispensabile e necessario per la vita, ma era volto unicamente a migliorare una funzione già presente in misure ridotta e che poteva migliorare con altri sistemi di correzione non chirurgica (occhiali, lenti a contatto): ne deduceva, quindi, che a fronte di una corretta e completa informazione avrebbe potuto determinarsi diversamente e comunque scegliere consapevolmente se sottoporsi o meno ad un'operazione potenzialmente migliorativa ma che presentava anche non trascurabili rischi di peggioramento della situazione.

La Cassazione, con la sentenza in commento, non ha ritenuto opportuno riformare la sentenza impugnata, ma ha proceduto alla correzione della motivazione sul rilievo – correttamente evidenziato dal ricorrente – secondo cui il presupposto del principio di diritto richiamato dalla corte d'appello e posto a base della pronuncia di rigetto (ovvero la presenza di un atto terapeutico necessario) fosse scarsamente pertinente con la situazione sottoposta al concreto esame della corte d'appello, ove si era invece in presenza di un intervento chirurgico non necessitato ai fini della sopravvivenza o della guarigione del paziente, ma migliorativo della sua condizione, in quanto volto a rimuovere o ridurre un difetto visivo esistente (ipermetropia).

Sotto altro aspetto gli Ermellini hanno ricordato i recenti approfondimenti in tema di consenso informato tracciati dalla più recente giurisprudenza di legittimità (cfr. in particolare Cass. n. 16336 del 2018), sulla scorta dei quali la conclusione della sentenza impugnata – nel rigettare la pretesa risarcitoria del paziente – appare corretta e va tenuta ferma. 

In particolare, la Cassazione rileva come sentenza impugnata non è riuscita ad inquadrare correttamente il tema di lite (presupponendo che l'intervento fosse salvavita), esprimendo altresì l' erroneo convincimento della necessità di una prova del rifiuto di sottoporsi all'intervento da parte del paziente ove adeguatamente informato.

Siffatta prova è, invece, necessaria solo nel caso in cui si sia verificato un danno alla salute – derivante dal trattamento non oggetto di consenso informato – di cui si chieda il risarcimento.

Diversamente, nei casi in cui il paziente – come nel caso di specie – faccia valere esclusivamente la diversa lesione del proprio diritto all'autodeterminazione in sé e per sé considerato, a prescindere o in assenza da una lesione alla salute, non è necessario provare che, ove la persona fosse stata compiutamente informata, avrebbe rifiutato il trattamento: la più recente giurisprudenza (Cass. sent. n. 16503/2017), infatti, ha puntualizzato che non risulta quindi corretta la tesi secondo cui l'inadempimento dell'obbligo informativo si avrebbe solo in caso di allegazione e prova, da parte del paziente, di un suo probabile rifiuto all'intervento in caso di avvenuta, adeguata informazione.

Ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale è invece necessario:

- che si varchi la soglia della gravità dell'offesa (ovvero il diritto deve essere inciso oltre un certo livello minimo di tollerabilità, ex aliis Cass. n. 2369 del 2018);

- che si alleghi e dimostri l'esistenza di pregiudizi e sofferenze eziologicamente riconducibili al trattamento, non essendo predicabile un danno in re ipsa consistente nella sola lesione del diritto all'autodeterminazione; tali sofferenze possono essere rappresentate anche dai disagi e dai patemi cagionati dalle stesse modalità e tempi di esecuzione, salvi i limiti di rilevanza sopra indicati.

Nel corso dell'istruttoria, il ricorrente non aveva dimostrato l'esistenza di sofferenze di apprezzabile gravità, eziologicamente riconducibili al trattamento: è quindi per la carenza di prova su questo specifico aspetto a determinare il rigetto del ricorso, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.