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 Con l'ordinanza n. 21848 dello scorso 11 luglio, la VI sezione civile della Corte di Cassazione – pronunciandosi in materia di compensi legali – ha accolto le doglianze di una parte che lamentava la scelta del giudice di merito che, nel liquidare il compenso dovuto in un giudizio di risarcimento danni, si discostava dai valori minimi e massimi della tariffa senza fornire adeguata motivazione dello scostamento dalla tariffa .

La Corte ha specificato che "non esiste un fondamento normativo che vincoli alla determinazione secondo i valori medi ivi indicati, dovendo il giudice solo quantificare il compenso tra il minimo ed il massimo della tariffa, a loro volta derogabili con apposita motivazione, sicché se, da un lato, l'esercizio del potere discrezionale del giudice contenuto tra i valori minimi e massimi non è soggetto a sindacato in sede di legittimità, attenendo pur sempre a parametri fissati dalla tabella, dall'altro è doverosa la motivazione allorquando il giudice medesimo decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere, essendo necessario, in tal caso, che siano controllabili le ragioni dello scostamento dalla tariffa e della quantificazione operata".

Il caso sottoposto all'attenzione della Cassazione prende avvio dalla domanda presentata da un medico, volta ad ottenere – nei confronti del proprio datore di lavoro, un Ospedale Pediatrico – il risarcimento del danno patito per un demansionamento già accertato in altro giudizio.

La Corte d'Appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale di Roma che aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno proposta, condannava l'ospedale pediatrico al pagamento della complessiva somma di Euro 12.231,00 ed a rifondere al ricorrente le spese del doppio grado di giudizio, liquidate in Euro 2000,00 per il primo grado e in Euro 3000,00 per l'appello.

Il medico proponeva ricorso in Cassazione, deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 2333 c.c. nonché degli articoli 4 e 5 del D.M. n. 55/2014, lamentandosi per averil Tribunale violato le tabelle allegate al D.M. n. 55 del 2014 perché, dopo aver applicato il principio della soccombenza ritenendo che non sussistessero ragioni per compensare le spese di lite, non si era attenuta ai valori medi né a quelli minimi, senza fornire alcuna motivazione a sostegno della scelta operata.

La Cassazione condivide le censure sollevate dal ricorrente. 

 La Corte ricorda che la quantificazione del compenso è attività discrezionale del giudice di merito che, ove contenuta nei minimi (o nei massimi), non esige una specifica motivazione.

Difatti, in merito alla liquidazione delle spese processuali successiva all'entrata in vigore del D.M. n. 55 del 2014, non esiste un fondamento normativo che vincoli alla determinazione secondo i valori medi ivi indicati, dovendo il giudice solo quantificare il compenso tra il minimo ed il massimo della tariffa, a loro volta derogabili con apposita motivazione, sicché se, da un lato, l'esercizio del potere discrezionale del giudice contenuto tra i valori minimi e massimi non è soggetto a sindacato in sede di legittimità, attenendo pur sempre a parametri fissati dalla tabella, dall'altro è doverosa la motivazione allorquando il giudice medesimo decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere, essendo necessario, in tal caso, che siano controllabili le ragioni dello scostamento dalla tariffa e della quantificazione operata.

Con specifico riferimento al caso di specie, la Cassazione rileva l'erroneità della liquidazione inerente il giudizio di primo grado, poiché la somma riconosciuta di Euro 2.000,00, anche se maggiorata ex lege quanto al rimborso delle spese documentate e di quelle forfettarie, risultava comunque inferiore al limite minimo indicato dalla tabella, sicché la Corte territoriale avrebbe dovuto indicare le ragioni della diminuzione.

Alla luce di tanto, la Cassazione accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte d'Appello di Roma, in diversa composizione.