Compensi legali: cosa deve provare il cliente per ottenere la restituzione degli acconti versati?

 Con l'ordinanza n. 7064 dello scorso 12 marzo in materia di compensi legali, la II sezione civile della Corte di Cassazione ha rigettato la richiesta di una cliente di ottenere, a seguito dell'inadempimento al dovere di esecuzione diligente del mandato professionale, la restituzione dell'acconto versato al proprio legale, ribadendo il principio per cui a fronte di una attività professionale effettivamente eseguita, il compenso è di regola dovuto al prestatore dell'opera.

Si è difatti specificato che "l'eccezione d'inadempimento, ex art. 1460 c.c., può essere opposta dal cliente all'avvocato che abbia violato l'obbligo di diligenza professionale, purché la negligenza sia idonea a incidere sugli interessi del primo, non potendo il professionista garantire l'esito comunque favorevole del giudizio ed essendo contrario a buona fede l'esercizio del potere di autotutela ove la negligenza nell'attività difensiva, secondo un giudizio probabilistico, non abbia pregiudicato la chance di vittoria".

Il caso sottoposto all'attenzione della Cassazione prende avvio dalla domanda presentata da un legale, volta ad ottenere il compenso per le prestazioni professionali prestate a favore di una cliente in una causa civile.

Costituendosi in giudizio, la cliente contestava l'inadempimento del legale all'obbligo di diligenza, per aver errato nella scelta della giurisdizione ordinaria in luogo di quella amministrativa, così proponendo domanda riconvenzionale per la restituzione dell'acconto ed il risarcimento del danno.

 Il Tribunale di Agrigento rigettava tanto la domanda principale che quella riconvenzionale, ritenendole entrambe non provate.

La Corte di Appello di Palermo condannava la cliente al pagamento in favore del legale dei compensi maturati.

La Corte di Appello riteneva, difatti, che il legale avesse dimostrato, mediante la produzione di atti di parte, verbali e sentenze, di aver svolto l'attività professionale in favore della cliente che, di contro, non aveva mai contestato l'effettivo svolgimento delle prestazioni medesime, né aveva mai allegato e/o provato il nesso eziologico tra condotta e danno, ovvero gli elementi di fatto specifici da cui inferire che il giudizio davanti al giudice amministrativo, se instaurato, avrebbe avuto con buone probabilità esito favorevole.

La cliente proponeva, quindi, ricorso in Cassazione, deducendo violazione degli articoli 1176, 1460 e 2236 c.c., per aver la Corte di Appello ritenuto dovuto il compenso all'avvocato anche in presenza di inadempimento al dovere di esecuzione diligente del mandato professionale.

La Cassazione non condivide le doglianze sollevate dalla ricorrente.

 La Corte premette che in tema di responsabilità professionale dell'avvocato per omesso svolgimento di un'attività da cui sarebbe potuto derivare un vantaggio personale o patrimoniale per il cliente, la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", si applica anche all'accertamento del nesso tra l'evento di danno e le conseguenze dannose risarcibili, atteso che, trattandosi di evento non verificatosi proprio a causa dell'omissione, lo stesso può essere indagato solo mediante un giudizio prognostico sull'esito che avrebbe potuto avere l'attività professionale omessa.

Ne consegue che l'eccezione d'inadempimento, ex art. 1460 c.c., può essere opposta dal cliente all'avvocato che abbia violato l'obbligo di diligenza professionale, purché la negligenza sia idonea a incidere sugli interessi del primo, non potendo il professionista garantire l'esito comunque favorevole del giudizio ed essendo contrario a buona fede l'esercizio del potere di autotutela ove la negligenza nell'attività difensiva, secondo un giudizio probabilistico, non abbia pregiudicato la chance di vittoria.